Carissimi,
tra poco sarà il 4 novembre, triste "festa" delle forze armate.
Da più parti si cercheranno di promuovere azioni significative per ricordare
la tragedia di ogni guerra e l'indecenza di festeggiare tale ricorrenza.
Io vorrei segnalarvi due cose.
La prima ce la racconta Walter Saresini, attraverso le parole di suo nonno.
E' una storia ricca della forza più potente: quella di chi attraversato fino
in fondo la strada del dolore e della privazione non solo senza arrendersi
mai al dramma degli eventi e senza perdere la propria dignità, ma anche
senza perdere mai la propria umanità. Anche di fronte al nemico, anche di
fronte a chi ha scelto laltra parte. Perchè "le vittorie si ottengono con
il rispetto e non con i fucili".
La seconda è la recensione di una rappresentazione teatrale di cui mi ha
parlato Roberto Cucchini - e che con l'aiuto di Roberto Cammarata forse
porteremo anche a Brescia - che racconta una storia vera. Una storia tragica
di significativa disobbedienza, avvenuta durante la grande guerra.
Ciao a tutti
Mimmo Cortese
Mio nonno Pietro racconta, non lo fa solo per la nostalgia che invade i
nonni, lo fa come sempre per farci sapere, per farci capire il suo pensiero
con la speranza che diventi anche il nostro pensiero.
Racconta la sua guerra, quella del '15-'18, quello che fu obbligato a fare a
soli 18 anni appena compiuti, sbattuto con altri suoi tanti coetanei sul
confine tra Italia e Slovenia, sul Carso su un altipiano, o monte?
"Cavallo" a combattere una guerra incomprensibile, inconcepibile per un
contadino-operaio.Ci racconta del linguaggio del popolo degli ultimi per
superare la censura, una lingua incomprensibile per il potere fatta di
esperienza del lavoro di fatica quotidiana di sottintesi che chiudono in una
mano una vita, ed al divieto dei comandi di dire a casa che la guerra andava
male, il nonno contadino scriveva " caro padre qui si vanga non si zappa"
quale ufficiale di carriera sapeva che per vangare bisogna andare indietro
mentre a zappare si va avanti?
Ci racconta la sua piccola storia con la sua consueta pacata forza, ci
racconta dei colpi di mortaio, che cadono vicino troppo vicino la paura di
morire di rimanere ferito, di non tornare a casa, lo fa senza enfasi
ricordandoci che la paura aiuta a vivere, che ci permette di capire il
dolore nostro e degli altri, noi ascoltiamo, vogliamo sapere quanti nemici
ha ucciso, quante volte ha sparato con il "91", lui ci guarda, interrompe il
suo vagare, si incupisce quasi ci rimprovera, poi con un sorriso ci risponde
perchè avrei dovuto uccidere figli di famiglia come me, come noi?", e la
guerra ci appare anche a noi incomprensibile, inutile .
Nel suo narrare non c'è mai retorica, non ne sarebbe capace, c'è tristezza,
consapevole fatica per esserci stato, in quella guerra, e ce lo vuol far
sapere, ci dice che la canzone "Tapum" non racconta la vera tragedia delle
persone, che il suono del fucile austriaco non era tapum ma TAC_PUM e che
tra il tac ed il pum passavano pochi inesorabili secondi ed era il tempo per
mettersi al riparo dai cecchini dalla morte dalla paura, ci spiegava nel
dettaglio le caratteristiche di quei fucili, il 91beretta italiano più
potente ma meno preciso quello austriaco stesso calibro maggior precisione
stessa gittata "utile" 1000 metri, che non lasciava scampo se non per quel
impercettibile lasso di tempo musicale tra il tac ed il pum, la vita stava
lì tra il tempo scandito da uno strumento di morte. Poi gli ultimi giorni da
soldato ragazzo, libero di morire per la casa savoia, raccontati con strana
velocità, quasi a fuggire dalla disgrazia dalle pallottole austriache dalla
disperazione di essere stato, stati, abbandonati, da tutto, da tutti. Il
giorno in cui in pattuglia tra la nebbia a primavera crede di incontrare una
pattuglia alleata ed invece si trova davanti uomini nemici, che parlano
italiano, i triestini alleati austriaci, rinuncia a sparare, fugge, scende
al campo, inseguito dalle pallottole, dalle urla triestine, la nebbia è
fitta anche se è maggio, entra nella baracca del comando , non ci sono più
ufficiali, le assi della baracca non fermano i colpi, le pallottole
miagolano tutto intorno, la disperazione cresce la paura fa correre quel
contadino operaio piccolo ma forte abituato sui sentieri di montagna, i
triestini vengono distanziati mollano la presa, il nonno sconvolto scende
ancora si riunisce agli altri, sono in tanti, più di trecento, non hanno
ordini, non ci sono ufficiali, molti sono ragazzi come lui non si sa che
fare, si aspetta la notte, loro non sanno che Caporetto ha ceduto, che
ognuno è lasciato alla pietà ed alla sua buona fortuna.
Al mattino nessuno ha più dubbi, basta combattere, fuggire, temere, giù a
valle ci sono gli austriaci , ci arrendiamo e per noi comincia la pace. Così
fecero, disarmarono i fucili, distrussero le carte, così l'affanno di mio
nonno cessa, il respiro torna normale, la quiete ritorna sul suo viso, ma
per poco, gli austriaci sono gentili, ma la marcia forzata verso il campo di
prigionia è terribile, 20 giorni di strada a piedi 12 ore di marcia, fino in
Ucraina, (io ho sempre pensato fino in Ungheria mio nonno ha sempre
insistito per l'Ucraina!). Comincia una nuova guerra 12 ore di lavoro nei
campi, un kilo di pane al giorno per 12 persone, le briciole vengono giocate
tra tutti, il furto di patate nei campi è punita con la morte ma la fame per
ragazzi di 18 anni è insopportabile ed il rischio non è considerato,ragazzi
italiani prigionieri, e ragazzi austriaci ungheresi carcerieri si dividono
ciò che trovano, il volto del nonno ci dice che non c'è rancore per i
carcerieri , ci ricorda che anche loro sono le vittime sacrificate alla
guerra.
I morti tanti morti tra i prigionieri, i più grandi, robusti muoiono per
primi,la fame e le malattie li stanno sterminando, una piccola banda
musicale accompagna i suoi amici al cimitero, tutti i giorni, dei più di
trecento di loro ne torneranno a casa non più di 50 quasi tutti "ragazzi del
'99" i più piccoli i più ingenui, i più miseri.
Gli occhi azzurri cerchiati di nero del nonno diventano tristi, spenti,
vuoti, non vuole come altre volte per altre storie, nascondere il suo dolore
perchè deve essere il nostro dolore, deve diventare il ricordo della morte,
dell'infamia, dell'ingiustizia, dobbiamo imparare, che tutto ciò è solo male
e che non ci sono scusanti per quello che può fare una guerra.
Arriva la scarcerazione,l'Italia ha "vinto" e l'ironico sguardo del nonno
non ha bisogno di parole, con sarcasmo ci racconta che il ritorno a casa in
treno è stato peggio della marcia forzata.30 giorni di treno metà dei quali
passati in vagoni blindati, nessuno doveva vedere i risultati della vittoria
migliaia di persone ridotte a scheletri, mio nonno sorride quando dice che
partendo per la guerra pesava 70 kili e quando tornava ne pesava 35, ma è un
riso triste, indignato per sé e per tanti come lui. Confinati all'ospedale
di Verona per altri due mesi isolati da parenti ed amici all'ingrasso per
riportarli ad una improbabile normalità e poi liberati fino al compimento
della maggiore età per essere chiamati alla leva militare: 15 mesi in
Sicilia con due licenze!! Il racconto del nonno non ammette mediazioni, ci
dice che la guerra è il male atroce ed assoluto, il peccato dell'umanità, l
infamia dell'uomo e che noi anche se piccoli dobbiamo imparare a combatterlo
non ci lasciano scampo le sue parole, non esistono vie di fuga da questo
ordine, dobbiamo farlo punto e basta.
Il 4 novembre diventava così il giorno del lutto, mio nonno Pietro ci
sequestrava alle famiglie, ci portava in montagna a raccogliere le ultime
castagne, i chiodini, ci insegnava i nomi delle piante, delle erbe le loro
qualità, il frassino buono per fare manici di vanga, il castagno per le
travi, il corniolo ed il nocciolo per i manici dei coltelli, ci insegnava i
nomi delle località,in dialetto ed in italiano, lo faceva con voce alta,
mentre dal paese ci raggiungeva la musica della banda musicale che intonava
le musiche della " vittoria" e lui ci esortava ad ascoltare la sua voce, a
non farci distrarre dalla musica, che le cose importanti erano lì tra noi, e
che le vittorie si ottengono con il rispetto e non con i fucili.La foschia
di novembre ci stringeva più vicini, ed in quella vicinanza io sentivo il
caldo dell'amore di un ragazzo del 99.
Contro l'ottusità della guerra
di MARIO BRANDOLIN
Rivolta in presenza del nemico, era questa una delle motivazioni con cui nel
corso della grande guerra centinaia di nostri soldati venivano condannati a
morte e fucilati. Non tradimento e insubordinazione, spesso semplicemente la
messa in discussione di un ordine, la critica a un comando scellerato. Come
quelli che nell' estate del 1916 erano stati impartiti a un gruppetto di
militari impegnati sulle alture attorno al passo di Monte Croce Carnico, i
quali, espertissimi di quei luoghi, si erano rifiutati di conquistare la
cima est della Creta di Collinetta per ragioni di opportunità, giudicando
quegli ordini e quell'azione suicidi, suggerendo però delle alternative di
percorso e di metodo. Ma gli ufficiali non sentirono ragioni e gli alti
comandi, dopo un processo piuttosto sommario, svoltosi nella chiesa di
Cercivento, condannarono tutti quei soldati a decine di anni di reclusione e
quattro di essi alla fucilazione. Che avvenne all'alba del 1 luglio dietro
il cimitero della piccola località carnica.
Una storia di ordinaria amministrazione militare in tempo di guerra, di cui
però tradisce tutto l'assurdo e il disumano. Una pagina piccola, tanto che
dei quattro militari uccisi, tre erano carnici e uno di Maniago, non rimane
traccia in nessun elenco, in nessun ossario o monumento. Solo il dolore dei
famigliari ne ha mantenuto vivo il ricordo. Ora quella quella oscura
frazione di una tragedia immane, come lo fu il primo conflitto mondiale,
rivive in una bel testo, scritto da Carlo Tolazzi, che in questi giorni è al
centro di un progetto del Comune di Tolmezzo in collaborazione con il Teatro
Club di Udine, intitolato Trincee, una serie di incontri e spettacoli che
nella riproposizione dell'episodio di Cercivento vuole farsi momento di
dibattito e riflessione, ma anche di conoscenza, soprattutto per i più
giovani, un «invito a non dimenticare, un monito non retorico alla pace e
alla giustizia».
Prima che sia giorno, così il titolo del lavoro di Tolazzi, immagina
l'ultima notte di due dei condannati di Cercivento: il carnico Basilio e il
maniaghese Angelo. Sono quattro quadri nei quali viene ricostruito
l'episodio della Creta di Collinetta nel racconto disperato dei suoi
protagonisti e cesellato il toccante ritratto umano di due esistenze
destinate a essere cancellate dall'insensatezza e dall'ottusità della
guerra. Sono due anime semplici, due dei troppi che si trovarono coinvolti
in un conflitto di cui a stento capivano il senso, vittime il più delle
volte di un patriottismo retorico e parolaio. Angelo, il più convinto di
essere stato lì per difendere la patria, Basilio più perplesso, visto che
con il nemico, di là dal passo, ci viveva aveva rapporti, ne conosceva anche
un poco la lingua.
Prima che sia giorno, presentato per due sere all'Auditorium Candoni di
Tolmezzo in forma di studio scenico per la regia e l'interpretazione di
Massimo Somaglino, Riccardo Maranzana e dello stesso Carlo Tolazzi, si apre
e si chiude con il racconto di un sogno. Il primo è quello fatto da Angelo
nel quale si vede la fucilazione e serve a creare l'atmosfera di terrore e
di rabbia che attanaglia nella disperazione i due; il secondo è quello di
Basilio che invece racconta di come tra i soldati delle due trincee
contrapposte si sviluppi un gioco con il pallone che li porterà a
familiarizzare e abbandonare le ostilità. Un testo, quello di Tolazzi, come
si è potuto anche evincere dalla precisa credibilissima appassionata e mai
ridondante interpretazione di Somaglino e Maranzana - un Angelo burbero
incazzoso tutto d'un pezzo, un Basilio fremente di pianto e disperato, un
testo, si diceva, che pur senza mai farsi didascalico o ideologico è un atto
d'accusa spietato, dove l'ingiustizia e la vergogna della guerra si mostrano
in tutta la loro tragicità e incomprensibilità proprio nel contrasto con il
candore, la profonda e genuina umanità dei due inermi condannati. Cui
contribuisce non poco il linguaggio che ha inventato per loro l'autore: un
veneto smargiasso e un poco plebeo per Angelo e un italiano dalle forti
venature carniche per Basilio: un linguaggio molto teatrale per un'azione
scenica, che pur nel vuoto di una scena assolutamente scarna (solo una
sfilza di povere carabattole, foto, medagliette, candele e scatoline a
delineare un cerchio al centro del palcoscenico) riesce a essere di grande
impatto emozionale, e che soprattutto nel finale si fa commozione pura e
attonita, sciolta solo dal lungo caloroso applauso del pubblico.