Segnalo, per chi non l'avesse visto, un interessante contributo
alla discussione in corso sul ritiro delle truppe italiane (ma non solo)
dall'Iraq.
Ciao
Margherita
Guerre Globali
lettera aperta al popolo della pace di Tariq Ali
Bush è in Babilonia. Dove sono i pacifisti?
Lettera aperta dello scrittore anglo-pakistano e direttore della «New
Left Review» al pubblico italiano dopo la strage dei carabinieri a
Nassiriya. È l'introduzione, quasi integrale, all'edizione appena uscita
in Italia di «Bush in Babilonia» per Fazi editore.
TARIQ ALI
L'Iraq è ancora oggi teatro di incredibili sofferenze, del tipo che
solo esseri umani che agiscano per conto di stati e governi (autoritari e
democratici) sono capaci di infliggere ad altri esseri umani. L'Iraq,
oggi, è il primo paese nel quale possiamo studiare l'impatto di una
conquista e una colonizzazione datate ventunesimo secolo. Era per prevenire
una tale calamità che, il 15 febbraio 2003, milioni e milioni di
persone hanno marciato per le strade del mondo. Solo a Roma, ce n'erano due
milioni. (...) Perché, allora, tante persone che si sono opposte
attivamente alla guerra hanno assunto un atteggiamento passivo di fronte
all'occupazione? È possibile che la mentalità coloniale, che molti di noi
avevano sperato fosse un triste ricordo del passato, sia ancora radicata
nell'inconscio collettivo del Nord del mondo? O lo è la convinzione, a
essa collegata, che la civiltà occidentale debba essere imposta con le
bombe alle popolazioni degli Stati recalcitranti? O, forse, si tratta
del semplice desiderio di fare del bene, per cui l'imperialismo è visto
come una combinazione di Oxfam e McDonald's? O, forse, quelli tra voi
che non erano a favore della guerra credono tuttavia che il ritiro delle
truppe sarebbe sbagliato e che l'occupazione/colonizzazione sia il male
minore? Accadde lo stesso, quando Mussolini occupò l'Albania e
l'Abissinia? Certo, era un dittatore fascista. Ma se i politici eletti
democraticamente si comportano in maniera simile, perché le loro azioni
dovrebbero essere considerate accettabili? Per chi si trova a subire, c'è ben
poca differenza. Contro la guerra ma a favore dell'occupazione? Questa
è evidentemente l'opinione dei leader dei Ds, come anche dei loro amici
che dispongono di spazio illimitato sulle pagine della «Repubblica», i
quali preferirebbero una maschera Onu, sebbene questo non cambierebbe
il carattere dell'occupazione, né della lotta che viene condotta contro
di essa. Quando Bernando Valli definisce «terrorismo» la resistenza
irachena chiude deliberatamente gli occhi davanti alla verità. Anche negli
Stati Uniti la decisione di riferirsi alla lotta irachena con il
termine di «azioni di guerriglia» o «insorti» piuttosto che «resistenza» è
stata presa dai direttori editoriali del Los Angeles Times e del New York
Times, scavalcando gli inviati che seguivano la guerra in Iraq. Che
giornalisti del calibro di Valli diventino propagandisti del governo è
allo stesso tempo inspiegabile e imperdonabile. Significa negare al popolo
iracheno il diritto alla determinazione del proprio futuro. Significa
accettare che il «Consiglio Nazionale Iracheno» altro non sia che uno
strumento del potere americano. E tutto questo dopo il 12 novembre 2003,
il giorno fatale in cui la base dei carabinieri italiani a Nassiriya è
stata attaccata dal maquis iracheno e sono stati uccisi degli italiani
al servizio dell'occupazione. Una domanda, caro lettore. La frase
precedente suona strana anche a te? Perché c'è una base dei carabinieri
italiani nell'Iraq del Sud? Per aiutare la «ricostruzione»? Aiutare chi? A
ricostruire cosa?
Una valutazione più equilibrata si può leggere sulla New York Review of
Books del 18 dicembre 2003 e presumo nella sua edizione italiana, che
raccomanderei a Valli e D'Alema. Il giornalista Mark Danner
nell'articolo Delusions in Baghdad riporta una sua conversazione con un ufficiale
italiano addetto alla sicurezza, due settimane prima del 12 novembre.
Cosa ha detto il militare al giornalista americano? Stando a Danner:
«Parlò chiaro: disse che chiunque aiuti gli americani sarà un obiettivo;
che gli americani non possono proteggere i propri alleati e garantire
sicurezza agli iracheni; che il disordine cresce e che la decisione di
collaborare con gli americani, i quali nel loro isolamento sembrano una
presenza poco autorevole e in ogni caso effimera, non è la mossa più
prudente; che la guerra, nonostante tutte le belle parole che il presidente
Bush può pronunciare dalla sua portaerei, non è finita».
Sono i servili politici italiani, con la loro ansia di dimostrare la
propria fedeltà, ad essere responsabili della morte degli italiani a
Nassiriya. Loro sarebbero dovuti essere bersaglio della stampa democratica
italiana, non gli iracheni che stanno cercando di liberare il paese.
Noi sappiamo che certamente Silvio Berlusconi e il suo principale
compagno, Gianfranco Fini, non sono grandi ammiratori della Resistenza
italiana. Non ci si può aspettare che improvvisamente sostengano una variante
irachena o palestinese.
Il summit di Fini con Ariel Sharon è stato simbolico da diversi punti
di vista. È stato carino da parte sua chiedere scusa per
l'«antisemitismo» italiano, ma non per il fascismo in toto. Dopo tutto, è andato lì
per appoggiare la costruzione di un muro che agli israeliani ricorda
molto il ghetto. E poi entrambi questi grandi leader, che hanno molto in
comune, hanno parlato della necessità di combattere il «terrorismo».
Quello che voglio dire è che non ci si può aspettare che la destra italiana
appoggi una resistenza contro l'occupazione imperialista, ma
l'opposizione si sbaglia se crede che una combinazione di Guantánamo e Gaza sia
uguale a «libertà per l'Iraq». Tutti i rapporti dall'Iraq sulla stampa
americana stanno mettendo in luce quanto la brutalità della
colonizzazione sia fortemente radicata. Sulla prima pagina del New York Times
(Barriers, Detentions and Razings Begin to Echo Israel's Anti-Guerrilla
Methods, 7 dicembre 2003) l'inviato a Baghdad invia un lungo dispaccio che
comincia così: «Con l'intensificarsi della guerriglia contro i ribelli
iracheni, i soldati americani hanno cominciato a circondare interi
villaggi con il filo spinato. In alcuni casi, i soldati americani stanno
demolendo edifici che si ritiene vengano utilizzati dagli attaccanti
iracheni. Hanno cominciato a imprigionare i parenti di sospetti
guerriglieri nella speranza di spingere i ribelli a consegnarsi». Suona familiare?
È in corso un'occupazione coloniale. Echi di Algeria, Vietnam, Aden,
Iraq sotto gli inglesi, Angola, Sudafrica. Su tale questione, almeno, il
regime di Berlusconi, che molti di voi comprensibilmente disprezzano, è
più coerente. Dopo tutto, l'Italia ha appoggiato la guerra. Inviare
contingenti per dimostrare la propria fedeltà all'impero americano è il
passo successivo, proprio come gli Stati dell'Est che sono passati
tranquillamente da un'alleanza all'altra mantenendo la loro condizione di
stati satellite. (...)
Pochi possono negare che l'Iraq sotto l'occupazione americana si trovi
in uno stato assai peggiore di quando era sotto Saddam Hussein. Non c'è
ricostruzione. C'è disoccupazione di massa. La vita quotidiana è fatta
di sofferenza e l'occupazione e i suoi fantocci non riescono nemmeno a
provvedere alle necessità di base della popolazione. Gli Stati uniti
non si fidano degli iracheni neanche per pulire le loro caserme e così
vengono impiegati immigrati filippini e dell'Asia Meridionale. Questo è
il colonialismo dell'epoca del capitalismo neoliberista, e così gli
Stati uniti e le multinazionali «amiche» hanno la precedenza. Anche nelle
migliori circostanze un Iraq occupato diverrebbe un'oligarchia di
compari capitalisti, il nuovo cosmopolitismo di Bechtel e Halliburton.
Alle società statunitensi è stata fornita la massima protezione, mentre
le istituzioni pubbliche (biblioteche, scuole, ospedali, università) o
sono state bombardate o sono state lasciate in balia di folle ben
manovrate. È anch'esso un modo per privatizzare un paese.
La combinazione di tutti questi fattori alimenta la resistenza e
incoraggia molti giovani a combattere. Pochi sono pronti a tradire quelli che
combattono. Questo è di cruciale importanza perché, senza il tacito
appoggio della popolazione, una resistenza prolungata è praticamente
impossibile.
Il maquis iracheno ha indebolito la posizione di Bush nel suo paese e
ha fatto sì che alcuni democratici criticassero la Casa Bianca, ma non
la povera Hillary Clinton, gli occhi fissi sul premio che crede sia in
serbo per lei, se non questa volta la prossima. Anche i benpensanti che
si sono opposti alla guerra ma hanno appoggiato l'occupazione e hanno
condannato la resistenza sanno fin troppo bene che, senza di essa,
avrebbero dovuto affrontare i cori di trionfo dei guerrafondai. E, cosa
ancora più importante, il disastro in Iraq ha rimandato a data da
destinarsi ulteriori avventure in Iran e Siria.
Uno degli episodi più comici degli ultimi mesi è stato quando Paul
Wolfowitz, durante uno dei suoi numerosi viaggi, ha dichiarato in una
conferenza stampa a Baghdad che «il problema principale è che ci sono troppi
stranieri, in Iraq». Il fatto che la maggioranza dei giornalisti
occidentali presenti non sia scoppiata a ridere è in un certo senso
inquietante. Gran parte degli iracheni vede le truppe d'occupazione come i veri
«terroristi stranieri». Perché? Perché una volta che occupi un paese,
devi comportarti da colonizzatore. Ciò accade anche dove non c'è
resistenza, come nei protettorati come la Bosnia e il Kosovo, ma dove c'è una
lotta armata contro l'occupazione, allora l'unico modello possibile è
quello dell'occupazione israeliana della Palestina. E sono dei
consulenti militari israeliani che ora stanno istruendo i soldati statunitensi
su come trattare gli arabi recalcitranti.
E non si addice ai commentatori occidentali come Valli, per non parlare
degli abbattuti e intimiditi giornalisti del Corriere della Sera, i cui
paesi stanno occupando l'Iraq, dettare le condizioni a quelli che si
oppongono. È una brutta occupazione, e questo determina la risposta. Ci
sono più di quaranta diverse organizzazioni di resistenza in Iraq,
grandi e piccole. Sono composte da baathisti, comunisti dissidenti
disgustati dal tradimento del Partito comunista iracheno che ha appoggiato
l'occupazione, nazionalisti, gruppi di soldati e ufficiali congedati dagli
occupanti e gruppi religiosi sunniti e sciiti (anche se questi ultimi
sono ancora molto esigui). E i grandi poeti dell'Iraq, come mostra questo libro, sono
la grande coscienza della loro nazione.
In altre parole, la resistenza è prevalentemente irachena, anche se non
sarei sorpreso se altri arabi stessero attraversando i confini per
prendervi parte. Perché non dovrebbero? Se ci sono polacchi e ucraini e
bulgari a Baghdad e Najaf, italiani a Nassiriya, inglesi a Bassora,
spagnoli a Baghdad, perché gli arabi non dovrebbero aiutarsi l'uno con
l'altro? Il fattore chiave della resistenza, oggi, è che essa è
decentralizzata: il classico primo stadio della guerriglia contro un esercito
invasore. Se questi gruppi passeranno o no al secondo stadio e istituiranno
un «Fronte nazionale di liberazione iracheno» resta da vedere.
Per quanto concerne il ruolo di «onesto mediatore» dell'Onu,
togliamocelo dalla testa, specialmente in questo paese. Parte del problema è
proprio questo. Lasciando da parte il suo operato precedente (come fautore
delle sanzioni killer e sostenitore dei settimanali bombardamenti aerei
angloamericani sull'Iraq per dodici anni), il 16 ottobre 2003 il
Consiglio di Sicurezza ha fatto un'altra figura vergognosa salutando con
favore «l'atteggiamento positivo della comunità internazionale verso un
Consiglio Governativo ampiamente rappresentativo [...] e il sostegno agli
sforzi del Consiglio Governativo per mobilitare la popolazione
dell'Iraq». E ci si è affrettati ad assegnare il seggio dell'Iraq nell'Onu a un
impostore raggiante di gioia, Ahmed Chalabi. Non si può fare a meno di
ripensare all'insistenza degli Stati uniti e della Gran Bretagna perché
Pol Pot conservasse il suo seggio per più di un decennio, dopo essere
stato rovesciato dai vietnamiti. L'unica vera norma riconosciuta dal
Consiglio di Sicurezza è la forza bruta, e oggi esiste una sola e unica
potenza in grado di impiegarla ed è per questo che per molti,
nell'emisfero meridionale e altrove, Onu significa Stati uniti, nonostante la
strana ostentazione del contrario. (...)
L'Oriente arabo è oggi teatro di una duplice occupazione: l'occupazione
americano-isrealiana di Palestina e Iraq. (...). Dopo la caduta di
Baghdad, il guerrafondaio leader israeliano, Ariel Sharon, disse ai
palestinesi: «Tornate in voi, ora che il vostro protettore è finito». Come se
la lotta palestinese dipendesse da Saddam o da qualsiasi altro
individuo. Questa vecchia concezione coloniale che gli arabi sono persi senza
un capo viene attualmente contestata a Gaza e Baghdad. (...)
E il futuro? Prima o poi tutte le truppe straniere dovranno lasciare
l'Iraq. Se non lo faranno di loro spontanea volontà, saranno cacciate. La
loro prolungata presenza (come quella delle compagnie americane) è un
incitamento alla violenza. Quando il popolo iracheno riconquisterà il
controllo del proprio destino, deciderà le strutture interne e la
politica estera del proprio paese. C'è da sperare in una combinazione di
democrazia e giustizia sociale, una formula che ha risollevato l'intera
America Latina ma che ha molto danneggiato l'impero.
Nel corso di un recente viaggio nel New Mexico, negli Stati Uniti,
un'amica mi chiese se avessi mai letto qualcosa dello scrittore americano
Cormac McCarthy. Scossi la testa con vergogna e ammisi la mia ignoranza.
«Leggi Meridiano di sangue», mi suggerì, «ti piacerà». Durante il lungo
volo di ritorno a Londra lessi quel libro. È una delle rappresentazioni
più feroci delle origini dell'impero americano e, caro lettore
italiano, ti vorrei raccomandare vivamente di leggerlo. Ancora riecheggia nella
mia mente. Ti lascio con una breve, concentrata descrizione di un
massacro coloniale attuato dai pionieri dell'impero alle prese con i nativi:
«Nel giro di questo primo minuto la carneficina era diventata generale.
Donne e bambini nudi urlavano, e un vecchio saltò fuori sventolando un
paio di pantaloni bianchi. I cavalieri giravano in mezzo ai Gileños e
li uccidevano con le mazze o i coltelli. Cento cani legati ululavano e
altri correvano all'impazzata fra le capanne mordendosi a vicenda e
azzannando quelli legati, e il pandemonio e il clamore non andarono mai
calando dall'arrivo dei cavalieri nel villaggio. Già numerose capanne
bruciavano e una processione di fuggitivi percorreva la spiaggia verso nord
urlando selvaggiamente, e i cavalieri andavano avanti e indietro come
mandriani tra il bestiame, abbattendo per primi i più lenti. Quando
Glanton e i suoi luogotenenti tornarono ad attraversare il villaggio, la
gente correva e finiva sotto gli zoccoli dei cavalli, e i cavalli si
slanciavano in avanti e alcuni degli uomini giravano fra le capanne torce
alla mano e trascinavano fuori le vittime, macchiati di sangue,
gocciolanti, e colpivano i morenti e decapitavano quelli che si inginocchiavano
per supplicarli». Questo era il Vietnam. Non si è raggiunto lo stesso
livello in Iraq, ma i segnali non sono dei migliori. E, caro lettore,
conosco la portata del problema in Italia. Un sistema televisivo
degradato e controllato dal presidente del Consiglio e dalla sua cricca, per gentile
concessione del governo precedente che, impaurito dalla sua stessa ombra, non
ha democratizzato i media. Ora ci serve un'equivalente italiana di Al
Jazeera. Forse si potrebbe chiamare Al Gramsci, come tributo
all'intellettuale che comprese quanto l'egemonia del ricco togliesse libertà al
povero. Ma questa è un'idea utopistica. Nel frattempo, la guerra in Iraq
continua la sua escalation. Non so se altri italiani vi moriranno.
Spero di no, come spero che non siano uccisi altri iracheni o soldati
americani, ma questo accadrà solo con un ritiro di tutti i contingenti
occupanti dal paese. E per questo, abbiamo bisogno di un rinnovato movimento
pacifista. Concludo con una nota ottimistica, rendendo omaggio al
coraggio di quei piloti dell'aeronautica israeliana che si sono rifiutati di
prendere parte ai bombardamenti in Palestina. Hanno dichiarato che si
erano arruolati nell'aviazione, non in un'associazione mafiosa che
compie stragi per ritorsione. Spero che Fini fosse all'ascolto. E spero che
tu, lettore italiano, accoglierai questo libro come un'offerta del Sud