Caro Walter Seresini, Trovo il tuo messaggio intrigante, poiche' provengo anch'io da una famiglia resistente (di quelle non armate) e cosi' mi e' venuto voglia di inserire qualche commento nel tuo testo, chissa' che non si riesca a costruire un discorso.
At 15:12 +0100 18-01-2004, Walter, Federica wrote:
Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè non si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur basilare ma entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di alcune scelte. Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga tutto il dibattito in corso come una rottura tra un partito ed il Movimento, anzichè un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra cosa!)
Infatti io sono convinto che quando si parla di violenza e di nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire cosa poi deriva da queste due modalità di comportamento. Allora, io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio delle considerazioni, che, da "ragazzo di paese" vi giro ed alle quali spero si cerchi di dare risposta.
Si cita spesso la resistenza italiana, ed io provenendo da una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa cosa, la resistenza italiana si costruì su un progetto politico trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che oggi è la nostra costituzione, sperimentata sul campo con "prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola per tutte, ed attraverso scontri ideologici anche aspri. I Resistenti addivennero alla republica, attraverso una guerra partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza non armata altrettanto pericolosa, per chi la fece, ed importante. Una resistenza fatta di persone disarmate che nascondevano, alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si opponevano come potevano perchè lo volevano.
La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali, ideologici, storici, politici, a disposizione del periodo; da quegli strumenti si produssero i mezzi per raggiungere un fine.
Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri fecere del loro meglio per costruire attraverso quei mezzi il fine, ma allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il "giusto fine " perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano a mio avviso i migliori di quel tempo.
"Il fine"... intendi l'attuale ordinamento della Repubblica Italiana? Io non lo vedrei come un fine, che mi suona statico, ma come un divenire, una specie di corsa a staffetta senza fine dove ciascuna generazione consegna il testimone a quella successiva. Per cui, se ad un certo punto della corsa, diciamo oggi, il "giusto fine" non e' poi abbastanza "giusto", non sarebbe da guardare ai padri che hanno ormai fatto la loro parte il meglio che hanno potuto, ma a noi stessi che siamo in corsa oggi, per vedere cosa si puo' fare per migliorare il sistema che non ci piace. Ricordo a questo proposito che un sistema, in quanto problema, non si puo' risolvere usando gli strumenti logici che l'ha costruito, (ha detto Einstein, che di problemi se ne intendeva.)
Dico questo perchè se la nostra democrazia è imperfetta ed addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò derivi anche se non sopratutto dai fini usati per raggiungerla.
E non credi invece, che cio' derivi dagli uomini che vi fanno parte? Se pensiamo che autorita' e sottomissione, variamente distribuiti, sono elementi importanti del carattere di una persona, io non andrei a cercare tanto indietro nel tempo per trovare le cause che rendono imperfetta una democrazia.
Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti di ieri, maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur proseguendo su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi nuovi che partano anche dalle esperienze passate.
Non è vero che la scelta del meno peggio porta al giusto.
Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il ragionamento su violenza e nonviolenza? E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori come banditi, soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il linguaggio codificato diventa inevitabilmente simile, quello che noi dobbiamo obbligarci a fare è codificare un linguaggio nuovo che mandi in tilt " il Grande decodificatore".
Buon punto. Hai qualche proposta ? (io ne ho).
Anche il ragionare sulla spirale "guerra- terrorismo" secondo me deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma anche ieri) la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine della seconda guerra mondiale, il 90% delle vittime durante le guerre sono civili, la guerra serve a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche, a schiacciare le società al volere dei "liberatori" che divengono i "ricostruttori di un nuovo ordine". Il terrorismo non istituzionale fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico istituzionale armato, producendo la stessa condizione politica e storica.
(Questo pero' mi sembra il linguaggio tradizionale, non "nuovo")
Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria, piuttosto che altri come atti resistenziali ( e può anche essere!) dobbiamo pensare che sono morti anche 8 civili irakeni ( la nazionalità non è importante); come definiamo queste vittime? Effetti collaterali, errore umano, contingente necessità ? Se questo è "il nome" o qualifica che diamo a quelle vittime ci assumiamo lo stesso linguaggio e responsabilità di chi fa della guerra il proprio progetto politico e pur pensando di avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.
Se invece diamo "accezzioni" diverse ( quali?) alle stesse vittime civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il ragionamento su violenza e nonviolenza perchè da una "semplice qualifica" ne risulterà una progettualità diversa e molto articolata,che forse non sempre ci soddisferà.
Un abbraccio Walter Saresini
Qui un po' mi perdo. Per me la faccenda di Nassyria e' un errore da non prendere in considerazione come modello di codificazione, perche' non fa testo. L'errore, mi spiego, e' l'essere andati in guerra. Dopo, una volta andati, cosa resta da codificare ? E' tardi.
Ed e' tardi anche per me, e' mezzanotte e me ne vado a letto, perche' domani ho da lavorare: ho da fare resistenza...
ciao, antonio