da Liberazione 16 gennaio 2004
Di fronte al potere violento
non
ci basta dirci non violenti
di Piero Bernocchi,Marco Bersani,Salvatore
Cannavò,Luca Casarini
Caro Sandro, cara Rina, la strategia della guerra
globale permanente e preventiva non offre scampo ai popoli, agli uomini e donne
della terra intera inglobati in uno stato di "terrore permanente" fin dentro gli
avamposti occidentali più ricchi e non più sicuri, gli aeroporti. Ma tale
terrore non è solo espressione della guerra globale: è sempre più fatto
immanente delle società in cui viviamo, espressione di un rapporto di dominio
prodotto dal dispiegarsi delle leggi del capitale a cui tutto deve soggiacere
pena una repressione sempre più indiscriminata - cosa sono, da ultimi, gli
arresti di Roma se non questo? - anzi, pena l'iscrizione d'ufficio nell'albo dei
violenti di turno, sempre troppo contigui al terrorismo e quindi da castigare
anche con la galera. E' in questa torsione semantica e politica che risiede il
rischio maggiore per le lotte di cui siamo protagonisti e che il dibattito, così
come avviato dall'intervento di Fausto Bertinotti, contribuisce, purtroppo, ad
alimentare.
La violenza come fatto intrinseco al sistema dominante,
espressione di un rapporto di dominio e di potere - anche quando viene
monopolizzata dall'attentato terroristico - finisce per costituire la cifra
identificativa delle lotte stesse e dei soggetti che si oppongono allo stato di
guerra permanente.
Questa torsione è resa possibile da un'idealizzazione dei
concetti che, in luogo di definire ed esprimere fenomeni reali dotati di
variabili e sfumature concrete, finiscono per diventare pure astrazioni, private
del loro contesto e della loro materialità. Il punto è che il cosiddetto
terrorismo, inteso nel senso classico, è un fenomeno storico non una categoria
assoluta. E in quanto fenomeno esprime a sua volta forme ed espressioni
differenti. Oggi, ad esempio, la sua forma più evidente e visibile è quella di
coloro (Al Qaeda in primo luogo) che, mediante il massacro feroce di civili,
sembrano rispondere alla guerra permanente con una forma di "guerra a bassa
intensità" altrettanto sporca e spietata, cercando di colpire il "cuore"
dell'occidente ma avendo in realtà come obiettivo cruciale sopratutto il
rivolgimento di alcuni stati arabi, l'Arabia saudita innanzitutto. Ma questo uso
del terrore indiscriminato, che non colpisce avversari "militarizzati" e in armi
ma per lo più civili
inermi, è cosa ben diversa dall'uso del terrore
che ad esempio i kamikaze palestinesi fanno nei confronti di Israele: uso che,
oltretutto, avviene sotto l'ala oppressiva della sconfitta della lotta pacifica
e di massa. E, a sua volta, quell'uso del terrore si differenzia ancora
rivolgendosi, a volte, in maniera indiscriminata, contro i civili, ma altre
attaccando i coloni, assai militarizzati e violenti nei confronti del popolo
palestinese, o, in molti casi, scegliendo obiettivi militari o comunque più
classicamente bellici: in questi ultimi casi usare il termine terrorismo
piuttosto che quello di resistenza armata diviene una scelta ideologica e di
schieramento con effetti assai negativi. E altrettanto ideologico e "di
schieramento" è la scelta di un termine o dell'altro nel caso iracheno dove agli
attentati di ignota matrice si susseguono vere e proprie azioni militari contro
l'occupazione statunitense, o inglese o italiana, che nulla hanno a che fare con
il terrorismo, ma che
divengono espressioni di una resistenza armata.
Tanto più in un contesto che ormai vede veri e propri moti di ribellione di
piazza che avvengono ogni giorno e che segnalano quanto sia esteso il rifiuto
dell'occupazione militare.
Queste analisi concrete non puntano affatto a
sostenere l'uso del terrore, ma servono o aiutano a comprendere la realtà in cui
operare per averne una rappresentazione il più possibile esatta. Servono a
capire, ad esempio, perché Noam Chomsky può dire che il "terrorista n° 1" sia
George Bush e servono a comprendere il ruolo che, in particolare in Italia, ha
avuto il terrorismo di Stato scagliato contro i movimenti. Ma tale concretezza
di analisi scompare del tutto quando si sceglie la contrapposizione idealistica
tra "la Guerra" e "il Terrorismo", quando cioè due categorie analitiche
acquisiscono soggettività politica, quasi una vera e propria personalità e un
intero apparato organizzato: e vengono utilizzate per descrivere non solo
l'esistente ma anche il passato e addirittura l'intero futuro. Così anche il
Vietnam diventa un fatto violento esecrabile, schiacciato sulla deriva
autoritaria dello stato vietnamita svalutando quell'effetto di "intontimento
delle classi dirigente
americane", di cui brillantemente parla Mario
Tronti, che allora ebbe: e, perchè no, magari anche l'intera attività dei
rivoluzionari cubani e dello stesso Che Guevara. La coppia guerra-terrorismo
(addirittura come "spirale"), che ad alcuni sembra così efficace nella
descrizione del presente, invece lo comprime e lo cancella in una dicotomia
astratta. La strategia imperialistica degli Usa punta a questa dicotomia per
costringerci a scegliere tra l'una e l'altra: e quindi se sei contro la guerra
globale sei per il terrorismo. E' stato così nel caso di Nassirya, anche se
abbiamo finito per non accorgercene. Quell'attacco militare contro il
contingente italiano - di questo si è trattato come ha sottolineato anche un
osservatore non certo a noi vicino, come Sergio Romano - è stato descritto come
un fenomeno terroristico, naturale conseguenza dell'opposizione alla guerra.
Accettare la dicotomia assoluta, la "spirale" crescente tra i due concetti
significa dunque rischiare di
assoggettarsi a questa strategia che in
ultima analisi punta a delegittimare qualsiasi obiezione, qualsiasi anomalia
nella lineare strategia di guerra permanente, qualsiasi "diserzione" che,
automaticamente, diverrebbe un passaggio da un campo all'altro dello scontro e
non un'alternativa (accusa che infatti Sharon muove ai Refusnik o che, peggio,
sostanzia la direttiva europea sul terrorismo finalizzata a redigere una lista
"nera" di movimenti di opposizione da considerare fuori legge). Continuare a
discernere, a selezionare gli argomenti, a descrivere i fenomeni per quello che
sono e rappresentano, rifiutare la falsa dicotomia guerra-terrorismo, ci sembra
invece il lavoro più difficile ma anche il più indispensabile per seguire una
strada di opposizione all'ordine mondiale che gli Stati Uniti ci vogliono
imporre.
Si dice, però, che il mezzo per rigettare quella dicotomia -
che nel discorso di Bertinotti non viene smentita, anzi appare condivisa e
persino enfatizzata - e sottrarsi alla morsa micidiale della presunta "spirale"
guerra-terrorismo sarebbe il rifiuto assoluto della violenza e quindi
l'accettazione completa della pratica nonviolenta. Che l'opposizione alla guerra
globale permanente sia oggi il movimento di massa su scala mondiale è un fatto
ormai acquisito già dalla risposta che questo è stato in grado di offrire dopo
l'11 settembre. Non crediamo però che questo possa essere riassunto solo nella
pratica non violenta. Intanto anche qui la scelta della terminologia è già una
scelta ideologica, politica e persino di schieramento. Spesso i movimenti, le
opposizioni sociali sono costrette a un uso della forza che è cosa ben diversa
dall'esaltazione della violenza, per praticare forme di autodifesa e di
resistenza alla repressione, alla barbarie, allo sfruttamento, al sopruso. Se è
vero
che non esiste una dicotomia guerra-terrorismo, ma decine di
sfumature, variabili, situazioni concrete diverse di caso in caso (a quale
categoria iscriviamo lo zapatismo o la resistenza colombiana?), anche per quanto
riguarda la scelta di pratiche di lotta esistono modalità molteplici. Tra
violenza e non violenza, lo abbiamo dimostrato anche qui in Italia nel movimento
e imparato l'uno dall'altro, esiste la disobbedienza, la resistenza, il
boicottaggio, il sabotaggio, ecc. E queste a loro volta si esprimono in forme
differenziate a seconda dei contesti. Cos'erano, se non questo, via Tolemaide,
piazza Da Novi, piazza Dante, piazza Alimonda il 20 luglio 2001 a Genova? Le
manifestazioni, le lotte e quindi le pratiche scelte si definiscono in funzione
assoluta o invece vanno commisurate agli obiettivi che si scelgono e ai
risultati ottenibili?. Violare le "zone rosse" - che ormai costituiscono la
frontiera interna della guerra globale - si misura sul tasso di nonviolenza o
sul
significato che ciò esprime per le lotte stesse, sulla fiducia che
si accresce, sulla forza che acquista un movimento? Non si può calare sulle
lotte, dall'alto di una definizione astratta, una categoria, la nonviolenza, che
ne cristallizza il divenire e rischia di paralizzarne l'azione. Insomma, non si
può commettere il rischio opposto a quello degli anni Settanta quando sembrava
che una determinata lotta o processo rivoluzionario fossero tanto più degni di
nota, quanto più facessero uso della forza (o della violenza). Queste astrazioni
vanno lasciate da parte. Le lotte si commisurano sulla base della capacità di
mobilitazione, sul tasso di partecipazione e di scelta democratica che sanno
garantire; le forme di lotta si definiscono sulla base degli obiettivi che si
sono scelti e, in ultima istanza, si giudicano su quanto rafforzano la fiducia
in sé stessi, nelle proprie ragioni, su quanto allargano consenso e protagonismo
sociale, su quanto evitano forme di "avanguardismo" e di
pratica
separata ed escludente. Ma naturalmente dipendono anche dall'atteggiamento, e
dal grado di violenza dispiegata da chi il potere gestisce. Perchè se così non
fosse, dovremmo dire che avevano ragione i nazisti a chiamare "banditen" i
partigiani. Mezzi e fini non sono disgiunti nel senso che si scelgono i mezzi
migliori per raggiungere i propri fini. I nostri fini sono un mondo senza
sfruttamento, senza padroni, senza guerre, democraticamente "governato", in
questo senso pacifico e in cui l'eliminazione della violenza è giocoforza un
processo da acquisire. Per questo il movimento "no global" non si è mai fatto
affascinare dalla violenza gratuita ed è infinitamente "altro" dal terrorismo.
Certamente aspiriamo a un mondo senza violenza e a un percorso di lotte il più
possibili immuni dalla violenza. Ma l'altro mondo possibile che vogliamo è
costruito giorno per giorno, in scelte quotidiane, in lotte quotidiane, spesso
difficili, in scontri non voluti ma imposti da leggi ingiuste
e dalla
repressione. Lotte che non sempre possono scegliere, pena l'immobilismo, tra
violenza e nonviolenza, avviluppate come sono dalla violenza del potere: e che
in certi casi devono anche autodifendersi. Possono scegliere, invece, di essere
partecipate, co-decise, mezzi consapevoli e autodeterminati aventi come fine un
mondo migliore.
Piero Bernocchi,
Marco Bersani,
Salvatore
Cannavò,
Luca Casarini