Questa guerra non mi rende
giustiziadi Redazione
(redazione@vita.it)
28/03/2003
Robert
McIlvaine, il padre di una delle vittime dell'11 settembre, in una testimonianza
per VITA, in anteprima dal numero del magazine in edicola da oggi. Testo
raccolto e tradotto da Paolo Manzo
Robert
McIlvaine è il padre di una delle 2.800 vittime delle Twin Towers. Oggi è un
convinto attivista no war. Perché lo è diventato? Perché non considera la guerra
un atto di giustizia? Lo ha spiegato in questa testimonianza a
Vita. Leggi
l'intero
sommario del numero in edicola.
Non mi definirei
un pacifista. Mio figlio è morto al World Trade Center. E mio figlio era una
persona normale, pura, un intellettuale. Aveva un lavoro alla Merrill Lynch.
Dopo l'11 settembre, ho cercato di dare un senso all'accaduto.
Sappiate che
è stata una pena insopportabile. Una perdita insopportabile, la perdita del mio
mondo… perché mio figlio era semplicemente una persona meravigliosa. Ma per
trovare un senso in quanto accaduto mi sono detto: sai, Robert, forse questa è
l'opportunità di cui aveva bisogno il mondo. Una finestra che si apre sul mondo,
una possibilità per la pace. Perché tutti sulla terra sono contrari a quant'era
accaduto e, in quei giorni, c'era una solidarietà fenomenale con gli Stati
Uniti. Se non fossero morti i 19 che hanno commesso quell'atrocità, li avremmo
portati di fronte alla giustizia, mi dicevo, mentre tutti i Paesi del mondo
avrebbero detto: «Dio mio, forse è meglio smettere di ospitare il terrorismo, è
tempo di aprire i nostri Paesi a ideologie più aperte». Questo pensavo dopo l'11
settembre: che sarebbe stata un'opportunità degna affinché la morte di mio
figlio non venisse sprecata. Invece, purtroppo, gli Stati Uniti hanno chiuso
quella finestra sul mondo. Io non sono stato a favore dell'intervento in
Afghanistan e adesso stiamo combattendo un'altra guerra. Ma le bombe non possono
essere la risposta. Ci ho messo molto tempo per arrivare al gruppo umanitario
Peaceful Tomorrows. L'ho fatto perché volevo essere ascoltato, e i parenti delle
vittime dell'11 settembre da queste parti sono ascoltati. L'ho fatto perché
tanta gente non dica più, come oggi: «un buon arabo è solo un arabo morto». Per
oppormi a chi la pensa così, io ho una buona tesi da opporre. Il problema degli
Usa di oggi, lo dicono le statistiche, è che il 43% della gente crede che Saddam
abbia avuto legami diretti con l'11 settembre. E questa è una disinformazione.
Forse chi guida questo Paese capirà un giorno che questa guerra è la fine, e
comincerà ad ascoltare la vera democrazia, quella della gente che scende nelle
strade. È sorprendente vedere come il mondo arabo si stia unendo, come il Sud
America si stia unendo, come contro questa guerra tutti si stiano unendo. In
tutto il mondo. Io non sono per la pace a 360°. È ovvio - lo dice il diritto
internazionale - che se un Paese è attaccato ha tutto il diritto di difendersi.
Ma di certo non è questo il caso degli Stati Uniti contro l'Iraq. E non
m'importa nulla di ciò che dicono in tv. I principali mass media negli Usa sono
brutali, e c'è bisogno di rivolgersi ai media alternativi per avere informazioni
adeguate.
Odio vedere soldati e gente innocente che muore. Sinora non c'è
stato nessun amico, né conoscente che abbia detto qualcosa, contro le mie idee.
Nessuno. Credo che rispettano il fatto che ho perso mio figlio alle Twin Towers.
Io non voglio vendette. Io voglio giustizia. È questo che dovrebbero perseguire
gli Stati Uniti e il mondo: giustizia, non
vendetta.
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