LA
GUERRA INFINITA
La
gravità dei fatti con cui giornalmente ci troviamo a confrontarci è tale da
lasciare senza parole. Sembra che il dire sia inadeguato e inutile. Ma questa
reticenza va superata. Solamente discutendo con chi vuole cambiare questo stato
di cose è possibile definire un percorso che risponda ai fatti con azioni
efficaci.
Perciò
proviamo a segnalare alcuni elementi per avviare la
discussione.
I tempi
di questa guerra sono
stati dettati dagli Stati Uniti. La guerra infinita, preventiva, globale e
permanente, si è sostituita alla “pace” annunciata con la caduta del muro di
Berlino. La guerra commerciale che in questi ultimi anni è andata
intensificandosi diventa oggi scontro militare. Il confronto tra i paesi
capitalistici ignorato o ritenuto ormai un orpello del passato torna
potentemente in scena. Salta l’equilibrio fra le potenze vincitrici della
seconda guerra mondiale e si riaprono i nefasti giochi di
guerra.
La
natura dell’intervento non può
essere adeguatamente colta dallo slogan di una guerra per il petrolio. Certo,
gli interessi petroliferi ed energetici in campo sono enormi, ma quel che cela
lo slogan non è meno importante: in un sistema capitalistico mondiale in crisi,
senza sbocchi o Eldorado da proporre, l’unica strada che consente di mantenere
in piedi questa baracca, garantendo a chi detiene il potere di perpetuarlo, è la
guerra, l’annientamento di lavoratrici e lavoratori, dei loro figli, delle loro
case, delle loro città. Le guerre mondiali del secolo scorso non sono stati
incidenti di percorso provocati da alcune anime diaboliche ma purtroppo la
modalità più “adeguata” per distruggere persone e cose senza cambiare le regole
di base del sistema economico-sociale in cui viviamo.
Il
fronte contrario alla guerra ha
annoverato sino a qualche giorno fa anche alcuni grandi stati europei (Francia,
Germania e Russia). I grandi stati hanno espresso più che una posizione
pacifista una opportunistica lamentela nei confronti della potenza dominante.
Desideravano disporre di più tempo per consolidare la “propria” politica di
dominio. Gli Stati Uniti li hanno presi in contropiede, ancora impreparati ad un
confronto militare di queste proporzioni.
Ci sono
nel mondo milioni di donne e uomini, gente che vive del proprio lavoro o che
a stenti sopravvive per mancanza di lavoro o per l’inadeguatezza dei salari che
percepisce, che sente d’istinto la guerra come contraria ai propri interessi.
Come mai questa maggioranza che dimostra ed esprime la propria contrarietà a
questa guerra non riesce a far valere le proprie ragioni ed a fermare la guerra?
Ci sono vari motivi. Questa disponibilità popolare a protestare, a far sentire
la propria decisa contrarietà alle politiche bellicose ed aggressive, è
d’impaccio non solo ai governi che sostengono la guerra in modo più o meno
diretto, ma anche a chi si proclama per una pace che non alteri l’attuale
assetto di potere. Fra questi pacifisti d’occasione troviamo parti consistenti
del centro sinistra, interi sindacati, Uil e Cisl e parti significative della
Cgil, quelli della guerra come “contingente necessità” con relativa missione
Arcobaleno per riferirci al passato prossimo. Costoro vedono il movimento
pacifista come uno strumento da cavalcare sin che fa comodo, finché accetta le
regole del bon ton istituzionale per cui si può tollerare la protesta,
soprattutto se inefficace, ma poi si torna a casa e si accetta tutta la politica
che il governo guerrafondaio propone: precarietà per tutti/e, salari da fame,
smantellamento dei servizi pubblici e rigare dritto altrimenti ti licenzio!
Altro che art. 18 per tutti e tutte!
L’opportunismo (il far
proclami e non far nulla di concreto anzi ostacolare chi vuol far qualcosa) e
il nazionalismo (il sostegno dei cosiddetti “interessi nazionali” che
altro non sono che gli interessi degli sfruttatori in casa nostra: padroni e
governo per dirla in termini forse considerati un po’ desueti ma a noi pare
efficaci) sono due facce della stessa medaglia. L’opportunismo fa sua la causa
della bandiera multicolore senza far seguire ai proclami uno straccio di azione
conseguente (dov’è lo sciopero generale che ferma il paese? chiedetelo ai
confederali che l’hanno annunciato prima che la guerra scoppiasse e poi si sono
limitati ad uno sciopero di due ore);
il nazionalismo invia i soldati al fronte, dichiara lo stato di
emergenza, ostacola gli scioperi, chiede una politica più idonea ad indurre alla
ragione questi giovani e meno giovani che vogliono la pace, che dicono di volere
un altro mondo.
L’altro
mondo possibile non
costituisce un “pericolo” finché rimane una semplice aspirazione. Se il
cambiamento a cui pensiamo non vogliamo sia uno slogan per i giorni di festa è
nella quotidianità che dobbiamo saper discernere tra chi ci vuole usare come
pedine per il proprio gioco e chi ci propone un percorso in cui noi, le
lavoratrici ed i lavoratori,
possiamo essere protagonisti del nostro futuro. Questa è la strada che
vogliamo percorrere con chi lo vorrà, nella consapevolezza che oggi più che mai, delegati RSU o semplici
lavoratori, non fa molta differenza. La differenza la fa la coerenza tra quello
che si dice e quello che si fa.
Brescia,
7 Aprile 2003
Sindacato intercategoriale dei Comitati di Base