ciao a tutte/i,
vi proponiamo questo (lungo - ma pensiamo
che sia importante
cercare di approfondire alcune questioni)
contributo al dibattito del
movimento contro la guerra.
un
abbraccio, Piero, Salvatore, Felice, Luciano
No alla
guerra "senza se e senza ma" - No all'occupazione
militare "senza se e
senza ma"
La ripresa dell'iniziativa contro la guerra - dopo il
Forum Sociale
europeo di Parigi e le manifestazioni del 22 novembre in
Italia - per
quanto ancora da sviluppare, ci sembra l'occasione
per intervenire
in un dibattito che si è aperto dentro il movimento
contro la guerra,
con un contributo alla discussione che vuole entrare
nel merito di
alcuni nodi emersi in questo dibattito, evidentemente
cruciali per
far crescere la consapevolezza e l'analisi critica
del movimento.
1 - La fine immediata dell'occupazione militare dell'Iraq
e il ritiro
delle truppe straniere che partecipano a tale
occupazione
rimangono gli obiettivi primari del movimento contro la
guerra in
questa fase.
Questo obiettivo è la conseguenza diretta
della nostra opposizione
alla guerra ("senza se e senza ma") - perché
l'occupazione
militare, in Iraq come in Afghanistan, è la forma
concreta e attuale
con cui viene combattuta in quei territori la
"guerra infinita" - ben
definita dal movimento come "guerra globale
permanente".
Così come la guerra globale non è la "risposta" - per
quanto
"sbagliata" - al terrorismo, ma persegue obiettivi e
strategie
proprie, in Iraq l'occupazione militare non è la risposta ad
una
situazione caratterizzata da una generica violenza o dal
caos:
l'occupazione militare è parte principale del problema -
causa
scatenante della violenza oggi diffusa in tutto il territorio
iracheno.
in Iraq la dittatura di Saddam Hussein, tre sanguinose
guerre
(contro l'Iran negli anni '80 e poi le due guerre chiamate "del
Golfo"
- con i bombardamenti contro la popolazione civile) e oltre
dodici
anni di embargo voluti e ferocemente messi in atto dagli
stessi
paesi che hanno voluto e combattuto l'invasione del paese
nella
scorsa primavera (purtroppo con il complice appoggio di quasi
tutti
i governi, europei in prima fila - fossero essi di centrodestra
o
centrosinistra), hanno provocato una crescente disgregazione
sociale e enormi sofferenze per tutta la popolazione irachena.
Sappiamo che questa situazione di disgregazione sociale e di
potenziale conflitto tra i vari settori della società irachena - per
la
quale la guerra scatenata dagli angloamericani porta la
principale
responsabilità - non potrà essere risolta solamente con la
fine
dell'occupazione militare, ma sappiamo anche che questa
occupazione ne è allo stesso tempo una delle cause e il principale
catalizzatore della crescente violenza armata e terroristica (che
come diremo oltre, non possiamo considerare sullo stesso piano).
La
cosiddetta "comunità internazionale" ha un enorme debito nei
confronti
della popolazione irachena - per quello che ha contribuito
a farle
subire in questi anni: oggi questo debito si deve ripagare
restituendo
immediatamente agli iracheni (attraverso le loro forze
politiche,
sociali e culturali che stanno organizzandosi) la sovranità
sulla
costruzione delle proprie istituzioni e la libera scelta del
proprio
futuro - garantendo internazionalmente che queste scelte
possano
essere prese in piena libertà e autonomia: non possiamo
condividere il
retropensiero di chi chiede che sia l'Onu a svolgere
una funzione
analoga a quella degli occupanti angloamericani,
continuando a
considerare gli iracheni infantili o pericolosi per loro
stessi, la
regione o il mondo intero.
In questo senso ci sembra importante elaborare
una proposta, a
partire dall'appello del movimento contro la guerra
statunitense per
il 20 marzo, da quello dei movimenti sociali europei
del Fse e da
quello italiano elaborato a Parigi per le manifestazioni
del 22
novembre e dalle "6 idee per la pace" elaborate
dall'associazione
"Un ponte per.".
L'Iraq non va "posto sotto
tutela" internazionale: gli iracheni vanno
sostenuti nelle loro
decisioni e nella loro conquista
dell'indipendenza e libertà. Un
sostegno che potrà significare
anche l'invio di forze internazionali
che garantiscano una
transizione non violenta e la stabilizzazione di
istituzioni
indipendenti (forze alle quali non devono in alcun modo
partecipare
i paesi che hanno voluto e appoggiato la guerra) ma
innanzitutto
sulla base di un effettivo processo di autodeterminazione
e che
dovrà vedere soprattutto l'impegno diretto delle società civili
e dei
movimenti sociali di tutto il mondo (in primo luogo quelle
europee e
degli Stati Uniti - per costruire un rapporto paritario e
cooperativo
con quella popolazione che faccia scordare le relazioni
coloniali
finora praticate dai "nostri" governi) - come già sta
avvenendo d
esempio con iniziative come quella italiana del "Tavolo
di
Solidarietà con le popolazioni dell'Iraq" (appoggiata
esplicitamente
dall'insieme del movimento antiguerra e che non
casualmente
rifiuta ogni rapporto con i militari occupanti) o quella
internazionale
del "Occupation Watch Center", che contribuisce a
sviluppare
un'informazione indipendente su quanto avviene in Iraq.
Per questo pensiamo che sia ancora centrale per il movimento
contro la guerra la richiesta del ritiro delle truppe italiane dall'Iraq
e
che sia una pericolosa ambiguità parlare di "modificare il
senso
della missione": la presenza delle truppe italiane è
illegale,
illegittima e politicamente ingiusta, e non è nemmeno la
risoluzione
1511 dell'Onu a fornire quella presunta
legittimità.
2 - In questa situazione non si sembra allora utile e
positivo il
generico appello per il "cessate il fuoco" o per la "fine
delle
violenze" promosso da Emergency: se siamo d'accordo a voler
in
ogni modo fermare la spirale guerra/terrorismo, non pensiamo
che
siano di aiuto appelli da "leggere tra le righe" - nei quali
manca
completamente una segnalazione dei soggetti responsabili
di
quanto sta avvenendo. Cosa significa appellarsi a "chi sta
praticando e progettando attentati e guerre" - senza mai nominare
esplitamente coloro che parlano "in nome nostro". Non si tratta di
fare una graduatoria delle violenze o delle responsabilità - ma
aiutare a comprendere come si è arrivati in questa situazione, quali
sono le strategie che i nostri "democratici" governi hanno
costruito
e praticato in questi anni - in Africa, in medioriente, in
Asia -
costruendo o sviluppando le condizioni per la crescita
delle
violenze e della guerra.
Cancellare dagli appelli politici
precise richieste politiche ci sembra
in questo momento fuorviante -
una concessione ad un "pacifismo
generico" che anche coloro che hanno
firmato l'appello hanno in
questi anni contribuito a superare.
Perché ci si è scordati di nominare le occupazioni militari come
forma di guerra a cui porre termine immediatamente (quindi
esigendo il ritiro delle truppe)?
Non ci convince in questo senso
neanche il passaggio della lettera
che il "Glt nonviolenza" della Rete
Lilliput quando afferma che
"risulta addirittura inutile insistere per
un ritiro immediato delle forze
armate dell'Italia . perché la
richiesta stessa alimenta risposte
improntate a valori nazionalisti e
al peggior patriottismo": è proprio
per contrastare questi falsi
valori, coltivati e propagandati dal
governo e da gran parte dei
media, che il movimento deve
mantenere ferme le sue ragioni e le sue
proposte politiche; non per
contrapporsi alle migliaia di donne e
uomini che sinceramente
sono stati colpiti dalle morti di Nassiryia,
ma per continuare a
rivolgerci a loro con la consapevolezza delle
cause che hanno
portato a quelle morti, delle responsabilità politiche
del governo
che ha voluto quella "missione" e dell'impegno di
solidarietà con il
popolo iracheno che stiamo praticando (come
scriveva Brecht
sugli "elmi dei vinti" , "il giorno in cui siete stati
vinti. fu quel primo
giorno. quando vi siete messi sull'attenti e
avete cominciato a
dire si" - forse è il momento di recuperare anche
la nostra
tradizione antimilitarista per la quale "il nemico marcia
sempre alla
tua testa").
Se siamo convinti - e mi sembra che su questo
concordiamo -
che le forze armate italiane sono forze di occupazione
militare,
abbiamo il dovere di chiedere il loro ritiro immediato.
Ci sembra in questo senso molto interessante la consapevolezza
del "mai più in nostro nome" che ha invece prodotto importanti
prese di posizione, come quella che Farid Adly ha rivolto agli
intellettuali arabi e musulmani affinché condannino e combattano
con decisione le forze terroristiche. Allo stesso modo noi dobbiamo
opporci con forza alla "nostra" tradizione coloniale e di guerra
-
opponendoci alle politiche di guerra dei "nostri" governi.
3
- Il movimento ha sempre espresso con chiarezza la condanna
esplicita
e decisa delle azioni terroristiche e delle reti che le
programmano e
conducono: questa condanna è la conseguenza
della caratteristica
fondamentale del movimento stesso, che si
basa sulla crescita della
partecipazione politica e sociale di massa
e il rifiuto della guerra -
per questo già nei giorni subito seguenti
l'11 settembre 2001
manifestavamo (anche a fianco dei movimenti
pacifisti degli Stati
uniti) "contro la guerra e contro il terrorismo".
La violenza terroristica è
l'esatto opposto di quello che vuole e
pratica il movimento: non solo
distrugge vite umane, ma si pone
come obiettivo l'espropriazione della
partecipazione popolare e
sociale, che invece rimangono il solo
strumento e la sola forza a
disposizione del movimento.
La
condanna e la mobilitazione contro le azioni e le reti
terroristiche
non possono però in alcun modo farci accettare una
categoria
indistinta e opportunistica di "terrorismo" - che
comprenderebbe
qualsiasi forma di rivolta o di resistenza armata
(che di fronte ad
un'occupazione militare è comunque legittima,
fino a quando si rivolge
contro gli occupanti e non è diretta
indiscriminatamente contro i
civili - qualsiasi sia il giudizio che poi
diamo sulle azioni e sulle
forze che praticano questa resistenza
armata): è questa la nozione di
"terrorismo" che cerca di
propagandare la stessa amministrazione Bush,
sulla stessa
lunghezza d'onda di Sharon o Berlusconi, inserendo in
tale
categoria tutto quello che non contasta o non è compatibile con
la
sua visione unipolare e con le sue strategie egemoniche
globali:
come scrive Raniero La Valle sulla "Rivista del Manifesto"
dello
scorso novembre "gli impuri, i non rassegnati, le 'canaglie',
i
terroristi, i titolari del diritto di ribellione, evocato dalla
Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo del '48".
Oggi
non è in corso una "guerra di civiltà" (della quale le religioni
sarebbero il fondamento) - non c'è in atto uno scontro globale tra
due soggetti "antagonisti": al contrario è dentro il processo di
globalizzazione capitalistica, dentro le logiche di dominio globale,
che nascono le strategie di riempimento degli spazi che
accomunano
i "signori della guerra" - siano essi presidenti
regolarmente eletti o
miliardari sauditi arricchiti dentro le
speculazioni del sistema
finanziario e i commerci globali di armi e
simili. E' in questi spazi
economici, politici e sociali, asimmetrici a
un processo di
globalizzazione economica che, anch'esso,
espropria miliardi di
persone del proprio destino, che si radicano e
crescono quella reti
terroristiche - che non sono certamente una
"rappresentanza degli
oppressi e degli sfruttati" (in nome dei quali
pretendono di parlare)
e nemmeno una "alternativa di sistema" -
ma una forma di quello stesso
sistema che il movimento dei
movimenti in tutto il mondo sta cercando
di sconfiggere sulla
strada del "altro mondo necessario".
Il
progetto di Al Qaeda è evidentemente un progetto di alcune
classi
dirigenti arabe che puntano a destabilizzare interi paesi e a
candidarsi come carta di ricambio. In Arabia Saudita o in Turchia il
progetto è ben visibile.
Diverso è il caso di quelle organizzazioni che
utilizzano metodi
terroristici come tragico strumento della loro
battaglia politica - uno
strumento che in nessun modo possiamo
ammettere e tollerare. I
"kamikaze" del 11 settembre 2001 non sono la
stessa cosa degli
attentatori suicidi palestinesi - non perché questi
ultimi sono in
alcun modo "giustificabili", ma perché sono il frutto
avvelenato di
una condizione esistenziale di disperazione, indotta
anche in quel
caso da decenni di occupazione militare e repressione
quotidiana.
Naturalmente vi sono soggetti politici che sfruttano
questa
disperazione - ma senza comprendere questa non potremo
mai
aiutare un processo di rifiuto degli attentati.
Allo
stesso modo, l'attacco ai soldati italiani a Nassiryia, chiunque
sia
il responsabile, non è "l'11 settembre italiano", ma la
conseguenza
tragica della partecipazione italiana all'occupazione
militare
angloamericana dell'Iraq.
Il terrorismo non è però in nessun modo la
"conseguenza
necessaria" delle drammatiche condizioni economiche,
politiche e
sociali che vivono intere popolazioni e tantomeno il
"giusto
compenso" che raccolgono i responsabili di quelle
condizioni:
molte sono le cause e le condizioni su cui crescono i
terrorismi -
ma è chiaro che senza affrontare quelle drammatiche
condizioni e
rendere quelle popolazioni nuovamente titolari delle
proprie scelte, i
terrorismi non potranno essere sconfitti.
Quando
scriviamo e diciamo che il movimento è il principale
antidoto e
avversario del terrorismo intendiamo proprio questo -
solamente
costruendo partecipazione popolare e protagonismo
sociale sulla strada
delle alternative possiamo chiudere gli spazi
alle politiche di guerra
e terroristiche.
4 - Dentro la crescita dell'iniziativa contro la guerra
è cresciuto
anche il dibattito sulla "nonviolenza" - e allo stesso
tempo le
richieste inaccettabili di "ripudiare la violenza" fatte da
chi invece
continua a pensare e praticare la guerra come
strumento
"possibile" della politica, con i suoi interventi militari,
l'aumento
delle spese militari ecc: non è a questi personaggi,
evidentemente,
che siamo chiamati a rispondere, perché non hanno alcun
titolo
per darci lezioni!
Il rifiuto di pratiche violente -
perlopiù finalizzate
all'autorappresentazione di sé o alla costruzione
di un'identità - e
della separazione tra mezzi e fini crediamo sia una
caratteristica
ormai diffusa e condivisa del/nel movimento - e
dobbiamo
continuare a operare perché lo sia sempre di più.
Il
dibattito che dobbiamo affrontare - senza alcun timore o
atteggiamento
difensivo - non può però partire da assunti ideologici
(per cui la
nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede
aprioristica)
ma nemmeno dall'idea della nonviolenza come
semplice "pratica" o
metodologia.
Dobbiamo lavorare per un'alternativa di società non
violenta,
riconoscibile anche nel suo percorso di formazione ma
l'opposizione ai processi di espropriazione sociale e alla violenza
delle politiche di guerra può rendere necessaria la resistenza, la
disobbedienza civile, il boicottaggio, il "sabotaggio" delle leggi
ingiuste e illegittime (pensiamo alla Bossi-Fini, ma anche alla
legge 30, alle spese militari o alla presenza di basi e depositi
militari sul territorio ecc.).
Il problema, secondo noi, è la
visuale da cui si guardano a queste
azioni e il metodo delle lotte.
Siamo convinti dell'inevitabilità del
conflitto sociale, anzi della
sua necessità per far avanzare una
nuova società. Ma il conflitto
sociale è utile ed efficace solo se
coniugato al consenso, alla
partecipazione popolare, alla
democraticità delle scelte e delle
decisioni comuni. Le forme di
lotta vanno individuate sulla base di un
criterio fondamentale:
quanto più riescono a rafforzare la
partecipazione, il protagonismo,
la consapevolezza delle proprie
ragioni, la coscienza di sé, dei
propri obiettivi il coinvolgimento
nelle pratiche, l'allargamento delle
lotte, tanto più sono giuste e
necessarie. Altrimenti si corrono due
rischi speculari:
l'avanguardismo fuori tempo massimo, il dirigismo
"machista" e
muscolare oppure la subordinazione al pensiero, e
agli interessi,
dominanti sempre in cerca di sterilizzazioni
ideologiche di qualsiasi
tipo di conflitto.
Sperimentare nuove forme di conflitto sociale e
politico, nuove relazioni tra
mobilitazione sociale e consenso, tra
partecipazione e costruzione di spazi
pubblici sottratti al dominio
del mercato e della violenza - questo è il
terreno di confronto e di
lavoro a cui siamo chiamate/i, tutte/i insieme.
Tutte/i insieme,
al Fse di Parigi, abbiamo deciso che il 20 marzo sarà una
giornata
internazionale contro la guerra e le occupazioni militari,riprendendo
la proposta del movimento contro la guerra degli Stati Uniti.
E' molto importante costruire questa scadenza nelle forme più unitarie
che il
movimento sarà capace di darsi a partire dalla riunione del
Gruppo di continuit
à allargato del 7 dicembre.
Ci sembra utile,
però, richiamare l'attenzione sulla necessità di un
approfondimento
tematico - seminariale e
assembleare - del movimento (a partire dalla
proposta del tavolo
Bastaguerra) per non nascondere le differenze tra
noi, ma
valorizzarle ecomunicarle e costruire, così meglio, una
consapevolezza comune e l¹affermazione delle nostre ragioni
condivise.
Salvatore Cannavò, Piero Maestri, Felice Mometti,
Luciano
Mulhbauer - redazione "Erre"