Carissimi, credo che in occasione della plenaria
del 18 dicembre sia importante partire dal documento redatto dai 4 compagni di
"erre", congiuntamente agli " 8 punti per l'iraq " di "
un ponte per.
Queste sono le analisi politiche epratiche
che secondo il mio modesto parere dovrebbero essere le basi per decidere il
"che fare e come farlo.
Quindi invito tutti e tutte a studiarsi bene i
due documenti per arrivare con proposte organiche utili per le campagne del 2004
su Guerra e Disarmo, calate anche nella nostra realtà.
Il gruppo pace inizierà o meglio
continuerà a ragionare su queste cose anche lunedì 15 ore 20,30
presso la camera del lavoro di BS, è evidente che tale cosa non
può essere demandata solamente a questo gruppo, quindi rinnovo la
richiesta di impegno di ognuno\a.
Ciao Walter
ciao a tutte/i,
vi proponiamo questo (lungo - ma pensiamo
che sia importante
cercare di approfondire alcune questioni)
contributo al dibattito del
movimento contro la guerra.
un
abbraccio, Piero, Salvatore, Felice, Luciano
No alla
guerra "senza se e senza ma" - No all'occupazione
militare
"senza se e senza ma"
La ripresa dell'iniziativa contro la
guerra - dopo il Forum Sociale
europeo di Parigi e le manifestazioni
del 22 novembre in Italia - per
quanto ancora da sviluppare, ci
sembra l'occasione per intervenire
in un dibattito che si è
aperto dentro il movimento contro la guerra,
con un contributo alla
discussione che vuole entrare nel merito di
alcuni nodi emersi in
questo dibattito, evidentemente cruciali per
far crescere la
consapevolezza e l'analisi critica del movimento.
1 - La fine immediata
dell'occupazione militare dell'Iraq e il ritiro
delle truppe straniere
che partecipano a tale occupazione
rimangono gli obiettivi primari del
movimento contro la guerra in
questa fase.
Questo obiettivo
è la conseguenza diretta della nostra opposizione
alla guerra
("senza se e senza ma") - perché l'occupazione
militare, in Iraq come in Afghanistan, è la forma concreta e
attuale
con cui viene combattuta in quei territori la "guerra
infinita" - ben
definita dal movimento come "guerra globale
permanente".
Così come la guerra globale non è la
"risposta" - per quanto
"sbagliata" - al
terrorismo, ma persegue obiettivi e strategie
proprie, in Iraq
l'occupazione militare non è la risposta ad una
situazione
caratterizzata da una generica violenza o dal caos:
l'occupazione
militare è parte principale del problema - causa
scatenante
della violenza oggi diffusa in tutto il territorio iracheno.
in Iraq la
dittatura di Saddam Hussein, tre sanguinose guerre
(contro l'Iran
negli anni '80 e poi le due guerre chiamate "del Golfo"
-
con i bombardamenti contro la popolazione civile) e oltre dodici
anni
di embargo voluti e ferocemente messi in atto dagli stessi
paesi che
hanno voluto e combattuto l'invasione del paese nella
scorsa primavera
(purtroppo con il complice appoggio di quasi tutti
i governi, europei
in prima fila - fossero essi di centrodestra o
centrosinistra), hanno
provocato una crescente disgregazione
sociale e enormi sofferenze per
tutta la popolazione irachena.
Sappiamo che questa situazione di
disgregazione sociale e di
potenziale conflitto tra i vari settori
della società irachena - per la
quale la guerra scatenata dagli
angloamericani porta la principale
responsabilità - non
potrà essere risolta solamente con la fine
dell'occupazione
militare, ma sappiamo anche che questa
occupazione ne è allo
stesso tempo una delle cause e il principale
catalizzatore della
crescente violenza armata e terroristica (che
come diremo oltre, non
possiamo considerare sullo stesso piano).
La cosiddetta
"comunità internazionale" ha un enorme debito nei
confronti della popolazione irachena - per quello che ha contribuito
a farle subire in questi anni: oggi questo debito si deve ripagare
restituendo immediatamente agli iracheni (attraverso le loro forze
politiche, sociali e culturali che stanno organizzandosi) la
sovranità
sulla costruzione delle proprie istituzioni e la
libera scelta del
proprio futuro - garantendo internazionalmente che
queste scelte
possano essere prese in piena libertà e
autonomia: non possiamo
condividere il retropensiero di chi chiede che
sia l'Onu a svolgere
una funzione analoga a quella degli occupanti
angloamericani,
continuando a considerare gli iracheni infantili o
pericolosi per loro
stessi, la regione o il mondo intero.
In
questo senso ci sembra importante elaborare una proposta, a
partire
dall'appello del movimento contro la guerra statunitense per
il 20
marzo, da quello dei movimenti sociali europei del Fse e da
quello
italiano elaborato a Parigi per le manifestazioni del 22
novembre e
dalle "6 idee per la pace" elaborate dall'associazione
"Un ponte per.".
L'Iraq non va "posto sotto tutela"
internazionale: gli iracheni vanno
sostenuti nelle loro decisioni e
nella loro conquista
dell'indipendenza e libertà. Un sostegno
che potrà significare
anche l'invio di forze internazionali che
garantiscano una
transizione non violenta e la stabilizzazione di
istituzioni
indipendenti (forze alle quali non devono in alcun modo
partecipare
i paesi che hanno voluto e appoggiato la guerra) ma
innanzitutto
sulla base di un effettivo processo di autodeterminazione
e che
dovrà vedere soprattutto l'impegno diretto delle
società civili e dei
movimenti sociali di tutto il mondo (in
primo luogo quelle europee e
degli Stati Uniti - per costruire un
rapporto paritario e cooperativo
con quella popolazione che faccia
scordare le relazioni coloniali
finora praticate dai
"nostri" governi) - come già sta avvenendo d
esempio
con iniziative come quella italiana del "Tavolo di
Solidarietà con le popolazioni dell'Iraq" (appoggiata
esplicitamente
dall'insieme del movimento antiguerra e che non
casualmente
rifiuta ogni rapporto con i militari occupanti) o quella
internazionale
del "Occupation Watch Center", che
contribuisce a sviluppare
un'informazione indipendente su quanto
avviene in Iraq.
Per questo pensiamo che sia ancora centrale per il
movimento
contro la guerra la richiesta del ritiro delle truppe
italiane dall'Iraq e
che sia una pericolosa ambiguità parlare
di "modificare il senso
della missione": la presenza delle
truppe italiane è illegale,
illegittima e politicamente
ingiusta, e non è nemmeno la risoluzione
1511 dell'Onu a
fornire quella presunta legittimità.
2 - In questa
situazione non si sembra allora utile e positivo il
generico appello
per il "cessate il fuoco" o per la "fine delle
violenze" promosso da Emergency: se siamo d'accordo a voler in
ogni modo fermare la spirale guerra/terrorismo, non pensiamo che
siano di aiuto appelli da "leggere tra le righe" - nei quali
manca
completamente una segnalazione dei soggetti responsabili
di
quanto sta avvenendo. Cosa significa appellarsi a "chi
sta
praticando e progettando attentati e guerre" - senza mai
nominare
esplitamente coloro che parlano "in nome nostro".
Non si tratta di
fare una graduatoria delle violenze o delle
responsabilità - ma
aiutare a comprendere come si è
arrivati in questa situazione, quali
sono le strategie che i nostri
"democratici" governi hanno costruito
e praticato in questi
anni - in Africa, in medioriente, in Asia -
costruendo o sviluppando
le condizioni per la crescita delle
violenze e della guerra.
Cancellare dagli appelli politici precise richieste politiche ci sembra
in questo momento fuorviante - una concessione ad un "pacifismo
generico" che anche coloro che hanno firmato l'appello hanno
in
questi anni contribuito a superare.
Perché ci si
è scordati di nominare le occupazioni militari come
forma di
guerra a cui porre termine immediatamente (quindi
esigendo il ritiro
delle truppe)?
Non ci convince in questo senso neanche il passaggio della
lettera
che il "Glt nonviolenza" della Rete Lilliput quando
afferma che
"risulta addirittura inutile insistere per un ritiro
immediato delle forze
armate dell'Italia . perché la richiesta
stessa alimenta risposte
improntate a valori nazionalisti e al peggior
patriottismo": è proprio
per contrastare questi falsi
valori, coltivati e propagandati dal
governo e da gran parte dei
media, che il movimento deve
mantenere ferme le sue ragioni e le sue
proposte politiche; non per
contrapporsi alle migliaia di donne e
uomini che sinceramente
sono stati colpiti dalle morti di Nassiryia,
ma per continuare a
rivolgerci a loro con la consapevolezza delle
cause che hanno
portato a quelle morti, delle responsabilità
politiche del governo
che ha voluto quella "missione" e
dell'impegno di solidarietà con il
popolo iracheno che stiamo
praticando (come scriveva Brecht
sugli "elmi dei vinti" ,
"il giorno in cui siete stati vinti. fu quel primo
giorno. quando
vi siete messi sull'attenti e avete cominciato a
dire si" - forse
è il momento di recuperare anche la nostra
tradizione
antimilitarista per la quale "il nemico marcia sempre alla
tua
testa").
Se siamo convinti - e mi sembra che su questo concordiamo
-
che le forze armate italiane sono forze di occupazione
militare,
abbiamo il dovere di chiedere il loro ritiro immediato.
Ci sembra in questo senso molto interessante la consapevolezza
del "mai più in nostro nome" che ha invece prodotto
importanti
prese di posizione, come quella che Farid Adly ha rivolto
agli
intellettuali arabi e musulmani affinché condannino e
combattano
con decisione le forze terroristiche. Allo stesso modo noi
dobbiamo
opporci con forza alla "nostra" tradizione
coloniale e di guerra -
opponendoci alle politiche di guerra dei
"nostri" governi.
3 - Il movimento ha sempre espresso con
chiarezza la condanna
esplicita e decisa delle azioni terroristiche e
delle reti che le
programmano e conducono: questa condanna è la
conseguenza
della caratteristica fondamentale del movimento stesso,
che si
basa sulla crescita della partecipazione politica e sociale di
massa
e il rifiuto della guerra - per questo già nei giorni
subito seguenti
l'11 settembre 2001 manifestavamo (anche a fianco dei
movimenti
pacifisti degli Stati uniti) "contro la guerra e contro
il terrorismo".
La violenza terroristica è l'esatto opposto di
quello che vuole e
pratica il movimento: non solo distrugge vite
umane, ma si pone
come obiettivo l'espropriazione della partecipazione
popolare e
sociale, che invece rimangono il solo strumento e la sola
forza a
disposizione del movimento.
La condanna e la
mobilitazione contro le azioni e le reti
terroristiche non possono
però in alcun modo farci accettare una
categoria indistinta e
opportunistica di "terrorismo" - che
comprenderebbe
qualsiasi forma di rivolta o di resistenza armata
(che di fronte ad
un'occupazione militare è comunque legittima,
fino a quando si
rivolge contro gli occupanti e non è diretta
indiscriminatamente contro i civili - qualsiasi sia il giudizio che
poi
diamo sulle azioni e sulle forze che praticano questa
resistenza
armata): è questa la nozione di
"terrorismo" che cerca di
propagandare la stessa
amministrazione Bush, sulla stessa
lunghezza d'onda di Sharon o
Berlusconi, inserendo in tale
categoria tutto quello che non contasta
o non è compatibile con la
sua visione unipolare e con le sue
strategie egemoniche globali:
come scrive Raniero La Valle sulla
"Rivista del Manifesto" dello
scorso novembre "gli
impuri, i non rassegnati, le 'canaglie', i
terroristi, i titolari del
diritto di ribellione, evocato dalla Dichiarazione
universale dei
diritti dell'uomo del '48".
Oggi non è in corso una
"guerra di civiltà" (della quale le religioni
sarebbero il fondamento) - non c'è in atto uno scontro globale
tra
due soggetti "antagonisti": al contrario è dentro
il processo di
globalizzazione capitalistica, dentro le logiche di
dominio globale,
che nascono le strategie di riempimento degli spazi
che
accomunano i "signori della guerra" - siano essi
presidenti
regolarmente eletti o miliardari sauditi arricchiti dentro
le
speculazioni del sistema finanziario e i commerci globali di armi
e
simili. E' in questi spazi economici, politici e sociali,
asimmetrici a
un processo di globalizzazione economica che,
anch'esso,
espropria miliardi di persone del proprio destino, che si
radicano e
crescono quella reti terroristiche - che non sono
certamente una
"rappresentanza degli oppressi e degli
sfruttati" (in nome dei quali
pretendono di parlare) e nemmeno
una "alternativa di sistema" -
ma una forma di quello stesso
sistema che il movimento dei
movimenti in tutto il mondo sta cercando
di sconfiggere sulla
strada del "altro mondo
necessario".
Il progetto di Al Qaeda è evidentemente un
progetto di alcune
classi dirigenti arabe che puntano a destabilizzare
interi paesi e a
candidarsi come carta di ricambio. In Arabia Saudita
o in Turchia il
progetto è ben visibile.
Diverso è
il caso di quelle organizzazioni che utilizzano metodi
terroristici
come tragico strumento della loro battaglia politica - uno
strumento
che in nessun modo possiamo ammettere e tollerare. I
"kamikaze" del 11 settembre 2001 non sono la stessa cosa
degli
attentatori suicidi palestinesi - non perché questi
ultimi sono in
alcun modo "giustificabili", ma perché
sono il frutto avvelenato di
una condizione esistenziale di
disperazione, indotta anche in quel
caso da decenni di occupazione
militare e repressione quotidiana.
Naturalmente vi sono soggetti
politici che sfruttano questa
disperazione - ma senza comprendere
questa non potremo mai
aiutare un processo di rifiuto degli
attentati.
Allo stesso modo, l'attacco ai soldati italiani a
Nassiryia, chiunque
sia il responsabile, non è "l'11
settembre italiano", ma la
conseguenza tragica della
partecipazione italiana all'occupazione
militare angloamericana
dell'Iraq.
Il terrorismo non è però in nessun modo la
"conseguenza
necessaria" delle drammatiche condizioni
economiche, politiche e
sociali che vivono intere popolazioni e
tantomeno il "giusto
compenso" che raccolgono i responsabili
di quelle condizioni:
molte sono le cause e le condizioni su cui
crescono i terrorismi -
ma è chiaro che senza affrontare quelle
drammatiche condizioni e
rendere quelle popolazioni nuovamente
titolari delle proprie scelte, i
terrorismi non potranno essere
sconfitti.
Quando scriviamo e diciamo che il movimento è il
principale
antidoto e avversario del terrorismo intendiamo proprio
questo -
solamente costruendo partecipazione popolare e
protagonismo
sociale sulla strada delle alternative possiamo chiudere
gli spazi
alle politiche di guerra e terroristiche.
4 - Dentro
la crescita dell'iniziativa contro la guerra è cresciuto
anche
il dibattito sulla "nonviolenza" - e allo stesso tempo le
richieste inaccettabili di "ripudiare la violenza" fatte da chi
invece
continua a pensare e praticare la guerra come strumento
"possibile" della politica, con i suoi interventi militari,
l'aumento
delle spese militari ecc: non è a questi personaggi,
evidentemente,
che siamo chiamati a rispondere, perché non
hanno alcun titolo
per darci lezioni!
Il rifiuto di pratiche
violente - perlopiù finalizzate
all'autorappresentazione di
sé o alla costruzione di un'identità - e
della
separazione tra mezzi e fini crediamo sia una caratteristica
ormai
diffusa e condivisa del/nel movimento - e dobbiamo
continuare a
operare perché lo sia sempre di più.
Il dibattito che dobbiamo
affrontare - senza alcun timore o
atteggiamento difensivo - non
può però partire da assunti ideologici
(per cui la
nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede
aprioristica)
ma nemmeno dall'idea della nonviolenza come
semplice
"pratica" o metodologia.
Dobbiamo lavorare per
un'alternativa di società non violenta,
riconoscibile anche nel
suo percorso di formazione ma
l'opposizione ai processi di
espropriazione sociale e alla violenza
delle politiche di guerra
può rendere necessaria la resistenza, la
disobbedienza civile,
il boicottaggio, il "sabotaggio" delle leggi
ingiuste e
illegittime (pensiamo alla Bossi-Fini, ma anche alla
legge 30, alle
spese militari o alla presenza di basi e depositi
militari sul
territorio ecc.).
Il problema, secondo noi, è la visuale da cui
si guardano a queste
azioni e il metodo delle lotte. Siamo convinti
dell'inevitabilità del
conflitto sociale, anzi della sua
necessità per far avanzare una
nuova società. Ma il
conflitto sociale è utile ed efficace solo se
coniugato al
consenso, alla partecipazione popolare, alla
democraticità
delle scelte e delle decisioni comuni. Le forme di
lotta vanno
individuate sulla base di un criterio fondamentale:
quanto più
riescono a rafforzare la partecipazione, il protagonismo,
la
consapevolezza delle proprie ragioni, la coscienza di sé, dei
propri obiettivi il coinvolgimento nelle pratiche, l'allargamento
delle
lotte, tanto più sono giuste e necessarie. Altrimenti si
corrono due
rischi speculari: l'avanguardismo fuori tempo massimo, il
dirigismo
"machista" e muscolare oppure la subordinazione al
pensiero, e
agli interessi, dominanti sempre in cerca di
sterilizzazioni
ideologiche di qualsiasi tipo di conflitto.
Sperimentare nuove forme di conflitto sociale e politico,
nuove relazioni tra
mobilitazione sociale e consenso, tra
partecipazione e costruzione di spazi
pubblici sottratti al dominio
del mercato e della violenza - questo è il
terreno di confronto
e di lavoro a cui siamo chiamate/i, tutte/i insieme.
Tutte/i
insieme, al Fse di Parigi, abbiamo deciso che il 20 marzo sarà una
giornata internazionale contro la guerra e le occupazioni
militari,riprendendo
la proposta del movimento contro la guerra degli
Stati Uniti.
E' molto importante costruire questa scadenza nelle forme
più unitarie che il
movimento sarà capace di darsi a
partire dalla riunione del Gruppo di continuit
à allargato del 7
dicembre.
Ci sembra utile, però, richiamare l'attenzione sulla
necessità di un
approfondimento tematico - seminariale e
assembleare - del movimento (a partire dalla proposta del tavolo
Bastaguerra) per non nascondere le differenze tra noi, ma
valorizzarle ecomunicarle e costruire, così meglio, una
consapevolezza comune e l¹affermazione delle nostre ragioni
condivise.
Salvatore Cannavò, Piero Maestri, Felice Mometti,
Luciano
Mulhbauer - redazione "Erre"