Per
fermare la guerra, fermiamoci.
Stiamo
davanti ad un momento cruciale per gli esseri umani. Alcuni, pochissimi,
dovrannno decidere in nome di uno stato che, in teoria, rappresentano. Altri, la
gran maggioranza, lo fanno unicamente in nome proprio. Vedremo se i primi sono
anche capaci di ascoltare i secondi. Ciò che è chiaro è che il si o il no alla
guerra definiscono due nozioni d’umanità differenti. L’uno o l’altro segnalano
un orizzonte ed un terreno diverso per i valori, le regole del gioco, il modello
di convivenza. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, dovrà
pronunciarsi.
Come
sappiamo, ciò che sta in gioco in questa guerra annunciata contro l’Irak è
l’attuale sistema di dominio globale, nella sua nuda brutalità. I potenti
dipendono dalla possibilità di continuare a sfruttare, in modo diretto o
indiretto, dei subordinati che non considerano come loro uguali (e neppure loro
simili). Il mondo attuale si è configurato in base a questo squilibrio, e alla
lotta per conservarlo: inizialmente attraverso il dominio militare, e poi quello
economico, tecnologico e finanziario. La forma è cambiata, ma non la sostanza.
Un numero riduttissimo di umani accumula e gestisce la stragrande maggioranza
delle risorse. Ed è disposta a fare la guerra ed a calpestare qualunque cosa
perchè la situazione si mantenga.
Per
altro verso, sappiamo anche che non si può estendere il nostro tenore di vita a
tutti gli abitanti del pianeta. La pressione sull’ecosistema sarebbe eccessiva.
Il modello di vita che ci rende prosperi è insomma insostenibile. Questo è un
altro aspetto cruciale nella disgiuntiva tra pace e guerra: perchè la scelta
della pace ci richiede di essere disposti a rinegoziare i nostri previlegi.
“Dobbiamo vivere semplicemente, perchè altri possano semplicemente vivere”, in
parole di Gandhi. Si tratta di decidere se lo accettiamo, o se preferiamo
mantenere i previlegi, sia pure al prezzo di una guerra.
Pur
avendone fatte e sofferte molte, sembra che ci si dimentichi sempre di quale
lacerazione introduca la guerra nel tessuto delle nostre vite: significa perdita
degli esseri amati, rottura delle relazioni, privazione di cultura, libertà,
scambi, bellezza, futuro. Per questo le persone non vogliono la guerra, neppure
qualora ricada su altre persone o popoli che vivono, lavorano, desiderano ed
amano come noi. Per questo, come persone, ci manifestiamo chiaramente
contro.
Eppure,
visto che non è affatto sicuro che il clamore popolare sia stato sufficiente per
fermare la macchina della guerra già avviata, penso che, come persone, dovremmo
prepararci per fare qualcos’altro. Qualcosa che ci aiuti insieme a superare
l’inevitabile sentimento di impotenza che si prova in simili circostanze, quando
sembra che “non si può fare niente” davanti alla disparità delle forze in
gioco.
Gandhi,
nella sua lotta per l’indipendenza dell’India, propose una azione che sempre mi
ha colpito per la sua semplicità, semplicità ed efficacia: chiese al suo popolo
una giornata di digiuno e di preghiera, un giorno intero d’inattività completa.
Questa iniziativa paralizzò completamente il paese, e mise in evidenza la
debolezza dei “potenti” inglesi, che dipendevano dalla collaborazione dei loro
sudditi per far funzionare la loro struttura di dominio. “Non fare niente” non
era più, in questo caso, una forma d’impotenza, bensì un modo di recuperare il
proprio potere e dignità come persona e come popolo.
Nel
nostro caso, dopo aver spedito e-mails, firmato appelli, scritto lettere ai
giornali, appeso striscioni ai balconi e manifestato in piazza, c’è un’altra
cosa che possiamo fare per fermare la guerra: e cioè semplicemente fermarci.
Rinunciare a fare, per un giorno, qualunque tipo di normale attività. Non fare
acquisti, non viaggiare (se non a piedi o in bicicletta), non guardare la
televisione, non connettersi ad Internet, non usare il telefono. Per una breve
lunga giornata. Così facile e così difficile.
La
proposta di Gandhi era rivolta a un popolo profondamente religioso ed
estremamente povero. Qui da noi, saranno pochi quelli che vorranno, o saranno
capaci, di trascorrere un giorno di concentrazione e digiuno, come gesto
concreto a favore della pace. Però è sufficiente se dedichiamo questa giornata
per stare insieme alle persone care, parenti o amici con cui possiamo riunirci
senza bisogno di usare veicoli a motore. Non c’è neppure bisogno di digiunare:
si tratta piuttosto di dedicare del tempo a cucinare un buon pasto usando quel
che abbiamo nella dispensa, senza fare altri acquisti, almeno per un giorno. È
consigliabile invece fare un digiuno d’informazione via mass-media; val la pena
mettere da parte gli apparecchi e recuperare la comunicazione diretta e
personale: conversare, leggere in compagnia, o magari scrivere lettere a persone
per noi importanti. In definitiva, si tratta di ritrovare un giorno del nostro
tempo per tessere questa ragnatela di fiducia, sensibilità, intelligenza e
affetto tra persone, che credo sia l’unica “arma di costruzione di massa” che
possiamo opporre alla guerra. Prenderci una giornata per percepire ciò che
abbiamo, per renderci conto dell’abbondanza di cui siamo circondati e poter
distinguere tra l’essenziale ed il superfluo.
Propongo
il 2 marzo. Sarà una domenica. Sarà probabilmente un giorno decisivo. Se ti
piace quest’idea, puoi metterla in pratica e farla circolare. Se sei capace di
tradurla ad un’altra lingua, sarebbe fantastico, potresti farla circolare anche
in altri paesi. Il vantaggio della proposta è che non ha un costo economico e si
può mettere in pratica senza chiedere permesso a nessuno. Il suo risultato
positivo lo avvertirà anzitutto chi la mette in pratica. E le sue conseguenze
sarebbero senza dubbio enormi, se potessimo farlo tutti insieme, con lo stesso
livello di partecipazione che si è registrato il 15 febbraio scorso. Perchè c’è
una cosa che il sistema della guerra non è capace di fare nè di sopportare in
alcun modo: fermarsi. E invece le persone si. Anche in questo sta una parte del
nostro potere, che ancora non ci possono prendere.
stefano