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La Turchia inizia a ripensare all’ipotesi di inviare le sue truppe in Iraq-Di Susan Sachs, da New York Times, 24 ottobre 2003
Baghdad 23 ottobre: combattuta tra le implorazioni
dell’amministrazione Bush per l’invio di truppe, con compiti di peace keeping,
ed una eguale e forte resistenza da parte degli iracheni, la Turchia ha iniziato
a tirarsi indietro dalla sua iniziale disponibilità a schierare migliaia dei
suoi soldati in Iraq.
In un comunicato diffuso due giorni fa i funzionari turchi hanno
affermato di non avere fretta d’inviare i loro soldati nel mezzo di un contesto
incerto, e possibilmente ostile, come quello iracheno, dove tutti i leader
politici, di tutti gli schieramenti hanno appoggiato la popolazione kurda che si
oppone alla presenza delle truppe turche.
L’ambivalenza turca è stata sottolineata, lo scorso martedì 21,
dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan: “sono stati gli USA a richiederci
l’invio di soldati turchi in Iraq. Noi non abbiamo insistito su questo
punto”.
Il Presidente BUSH sta provando a convincere un certo numero di
nazioni musulmane ad inviare truppe in Iraq per alleggerire il peso che grava
sui militari statunitensi e cambiare l’immagine dell’occupazione: da quella di
un esclusivo sforzo occidentale a quella di uno impegno multietnico e
multinazionale.
L’unico successo apparente è stato quello con la Turchia, che sta
tentando di ristabilire le relazioni con l’amministrazione Bush dopo il suo
rifiuto di consentire alle truppe USA di utilizzare la Turchia come base per la
guerra in Iraq.
All’inizio di questo mese il Parlamento turco ha dato al governo
mano libera per negoziare il dispiegamento di truppe in Iraq. Da allora, però,
il crescendo delle proteste pubbliche in Turchia e la ferma obiezione dei leader
politici iracheni hanno fatto crescere dubbi sul piano tra i potenti militari
turchi.
A Washington i
funzionari dell’amministrazione hanno continuato ad esprimere fiducia, anche se
abbastanza guardinga, che, alla fine, la Turchia finirà con l’unirsi alle truppe
alleate in Iraq.
Il portavoce del Dipartimento di Stato, Adam Ereli, ha detto che
l’amministrazione Usa crede che la Turchia possa giocare un ruolo importante
nella stabilizzazione dell’Iraq e ha aggiunto che Washington ed Ankara stanno
ancora negoziando sul possibile schieramento delle truppe turche: “Restiamo
fiduciosi che un accordo soddisfacente, su questo punto, potrà essere
raggiunto”.
Allo stesso tempo i funzionari Usa in Iraq hanno visto crescere la
diffidenza in faccia a tutti i 25 membri del Consiglio di governo dell’Iraq
circa il dispiegamento di truppe turche nel paese.
Paul Bremer, l’amministratore USA dell’Iraq, ha suggerito a
Washington di lasciare agli iracheni e ai turchi il compito di risolvere da soli
i loro problemi. Dan Senor, Consigliere di Bremer, ha affermato che
l’amministratore USA avrebbe raccomandato “come prossimo passo, l’avvio di un
dialogo diretto tra la Turchia e il Consiglio di
governo”.
La leadership irachena, lenta a prendere tutte le altre decisioni,
è stata capace di unirsi con forza sulla questione dello schieramento delle
truppe turche. Il Gran Consiglio ha accettato di discutere con la Turchia, ma
gli amministratori iracheni hanno chiarito che faranno tutto il possibile per
soddisfare gli USA.
Zebari, Ministro degli esteri ad interim, lo scorso martedì ha
detto che il Consiglio di governo riconosce il desiderio dell’amministrazione
Bush di rafforzare le truppe di occupazione con la presenza di soldati
mussulmani ma altresì affermato che la presenza di truppe turche, o di qualsiasi
altro paese della regione, potrebbe provocare molta più violenza in Iraq a causa
del riaccendersi di antichi odi e sospetti.
Il nord Iraq, che
confina con la Turchia, è regione a maggioranza kurda, così come il sud est
della Turchia. I più importanti gruppi tribali e politici kurdi dell’Iraq hanno
spesso cooperato con la Turchia nel soffocare le rivolte kurde in Turchia. Ma
anche gli iracheni sono fortemente contrari alla lotta kurda in Turchia per una
maggiore autonomia.
AFP – “La Turchia sull’incapacità USA a riguardo della richiesta
di truppe turche in Iraq”. Ankara, 28 ottobre
2003
Il Ministro degli esteri turco Abdullah Gul ha accusato gli Stati
Uniti di essere stati inetti nel trattare la richiesta di truppe turche da
inviare nel vicino Iraq per aiutare le loro forze sul luogo, ha riportato
l’agenzia turca Anadolu.
“Naturalmente c’è stata incapacità. Prima sono venuti, con
molto entusiasmo e ci hanno detto “non perdete tempo” e poi hanno visto che ci
sono molte questioni inerenti, così che essi stessi hanno esitato molto” ha
detto Gul ai giornalisti.
Di fronte alle sempre maggiori perdite nel dopo guerra in Iraq,
Washington ha chiesto aiuto militare ad Ankara, ma poi è sembrato fare un passo
in dietro sull’idea di affrontare l’imbattibile opposizione della leadership ad
interim di Iraq.
Il governo di Ankara, nel frattempo, ha ottenuto, per i suoi piani
di dislocamento delle truppe, l’approvazione parlamentare, suscitando l’ira
dell’opinione pubblica che si oppone profondamente ad estendere l’aiuto militare
per aiutare gli Stati Uniti in Iraq. Il Primo Ministro Recep Tayyp Erdogan la
scorsa settimana aveva detto che Washington ha chiesto una pausa nelle
trattative con Ankara sulla questione del dislocamento in Iraq, ma ha detto che
il piano non è stato ritirato.
“Gli americani non conoscono bene la regione. Non hanno
prestato abbastanza attenzione agli avvisi che gli erano stati presentati.Se gli
ufficiali che attualmente stanno amministrando l’Iraq avessero conosciuto meglio
la regione, oggi le cose andrebbero meglio” ha detto
Gul.
Il Parlamento turco il 7 ottobre autorizzò l’invio dei soldati in
Iraq, ma gli ufficiali statunitensi, hanno mancato di assopire le obiezioni che
il Consiglio di governo iracheno avanza nei confronti del
piano.
L’organismo istituito dagli USA dice che il coinvolgimento
militare dei paesi confinanti potrebbe interferire con la politica interna e
impedire i già fragili sforzi del paese devastato dalla
guerra.
I kurdi di Iraq, che hanno avuto per lungo tempo delle strette
relazioni con Ankara, sono particolarmente ostili e preoccupati che la Turchia,
confinante con la parte nord della loro patria, potrebbe tentare di ostacolare i
loro profitti del dopo guerra.
“Non effettueremo niente finché ci saranno esitazioni…
qualsiasi cosa che ci riguarda dovrà essere chiarita, tutti dovranno dire
sì” ha detto Gul. Aggiungendo che sta a Washington persuadere la leadership
irachena.
“Riteniamo che possano convincere quelli che loro stessi hanno
incaricato… Gli USA sono l’autorità in Iraq. Quindi sono loro i nostri
interlocutori. Questo non significa che noi non rispettiamo il popolo iracheno.
Il successo del popolo iracheno per noi è molto importante” ha detto
Gul.Il dialogo con gli USA su questo tema continuerà, ha detto il
Ministro, aggiungendo: “non abbiamo alcuna
fretta”.
Molti politici turchi, compresi alcuni membri del governo, hanno
espresso il proprio sollievo di fronte alla prospettiva che sfumi il piano, a
cui si oppone l’opinione pubblica. Aiutando gli Stati Uniti, il governo è
intenzionato a recuperare quanto perduto nel non aver partecipato alla guerra e
nell’ottenere voce in capitolo nel processo di ricostruzione del dopo guerra,
nel quale teme che i kurdi iracheni possano ottenere influenza per una futura
indipendenza. Una tale prospettiva potrebbe ridare fiato alla violenza
separatista fra i kurdi nel vicino sud-est turco.
Il presidente Sezer: «La questione è chiusa». Scacco
per Washington che dava per scontato l'arrivo dei rinforzi militari di
Ankara- Da Liberazione / Giancarlo
Lannutti
Iraq, la Turchia non inviera'
truppe
Per
Bush sull'Iraq le delusioni non finiscono mai: dopo l'esito non proprio felice
della conferenza dei Paesi donatori a Madrid e la ribadita intenzione di
Francia, Germania e Russia di non sborsare un soldo finché la situazione
irachena resta quella che è, ieri è tramontata anche la possibilità di un
intervento di truppe turche per alleviare il peso di una occupazione (e di una
resistenza) che finora è gravato essenzialmente sulle spalle degli Stati Uniti.
Nelle settimane scorse l'invio di contingenti militari turchi a
integrare le forze della coalizione era dato ormai per scontato, Ankara veniva
annoverata tra quegli alleati o "amici" che si erano dimostrati sensibili alle
richieste di Bush senza stare tanto a cavillare su quale fosse in effetti il
ruolo o la "copertura" delle Nazioni Unite. Ma adesso è venuta la doccia fredda:
il presidente turco Ahmed Necdet Sezer ha detto ieri di considerare "una
questione chiusa" l'eventuale invio di truppe del suo Paese per partecipare alla
stabilizzazione dell'Iraq. Sezer non è sceso in particolari e non ha dunque
fornito dettagli sulle motivazioni della sua affermazione né sulla giustezza o
meno di una partecipazione turca all'operazione militare in Iraq; ha detto
soltanto, in modo un po' sibillino, che «è molto difficile armonizzare le
condizioni necessarie» per l'invio di truppe.
Evidentemente Ankara aveva chiesto delle contropartite che non ha
ottenuto, o che ha ottenuto in modo ritenuto insufficiente; in ogni caso la sua
decisione rappresenta un autentico rovescio per i progetti americani. Quali
fossero le contropartite che la Turchia potrebbe aver chiesto non è dato per ora
sapere, almeno in forma ufficiale o comunque esplicita. Non è però difficile
immaginarlo, se pensiamo da un lato alle mire turche sulla ricca regione
petrolifera di Mosul (mire che risalgono agli anni immediatamente successivi
alla prima guerra mondiale e allo smembramento dell'Impero Ottomano) e
dall'altro alla decisa ostilità di Ankara verso la nascita di un qualunque
potere autonomo curdo - indipendente o federato che sia - nel nord dell'Iraq,
per i possibili contraccolpi politici e psicologici sulla "sua" regione curda,
tanto più dopo che gli eredi del Pkk hanno unilateralmente denunciato l'ormai
pluriennale cessate il fuoco.
Su
questi termini ci sono già stati momenti di contrasto e di tensione con gli
Stati Uniti: ricordiamo in particolare che alla vigilia della guerra Ankara
rifiutò, con un voto di maggioranza del suo parlamento, il passaggio sul suo
territorio alle truppe americane, rendendo con ciò di fatto impossibile un
attacco contemporaneo dal sud e dal nord contro Baghdad; successivamente, a
guerra iniziata, minacciò un intervento diretto e unilaterale delle sue truppe
se i guerriglieri curdi avessero "liberato" da soli le città del nord Iraq, e in
particolare proprio Mosul; e anche per questo gli americani lanciarono sulla
regione curda la Divisione di paracadutisti partita dalle basi italiane.
Il
fatto è che con l'avvento del mondo unipolare, dopo il collasso dell'Urss, il
quadro geostrategico complessivo è cambiato e di conseguenza si sono modificati,
o aggiornati, anche gli interessi di attori regionali ma comunque importanti
come la Turchia. Ankara è oggi in una situazione contraddittoria: da un lato ci
sono la fedeltà, o la solida amicizia, verso il vecchio alleato, il legame con
la Nato e l'aspirazione a un rapido (ma non facile) ingresso nell'Unione
europea, dunque la sottolineatura di una vocazione per così dire "occidentale";
dall'altro ci sono le suggestioni dell'eredità ottomana e di un risorgere del
sogno "panturanico" degli anni '20, sia pure in termini aggiornati ma con
l'occhio che va comunque dalla regione del Caucaso all'Asia centrale
ex-sovietica; e a "gestire" questa contraddizione c'è per di più un governo
islamico, per quanto di segno moderato. Se non ha tenuto conto
di tutto questo, l'Amministrazione Bush sta dando la ennesima prova della
superficialità e insipienza con cui ha affrontato l'intero affare iracheno.
I
kurdi sono stati infine ascoltati: “La Turchia brucia i nostri villaggi”
da New York Times, 24 ottobre 2003
Uno
dopo l’altro, gli abitanti dei villaggi avanzarono nei loro vestiti
sbrindellati, pronunziarono il giuramento nell’aula giudiziaria ed iniziarono a
parlare di crimini primi indicibili. Una delle prime fu Emin Toprah, una giovane
donna kurda la faccia della quale, inaridita, anticipava la storia che stava per
essere raccontata: “Stavo sedendo in casa con i miei figli, loro vennero e
dissero – stiamo per bruciare la tua casa - e così noi uscimmo”. Questo è
quello che la signora Toprak disse alla fila di giudici turchi, vestiti in abiti
di seta, seduti dinanzi a lei.
Uno dei giudici disse:
“Chi bruciò il tuo villaggio?”
E lei rispose: “Le forze governative”.
Così
è successo che, al terzo piano di un aula di un palazzo giudiziario turco, la
scorsa settimana, un pugno di cittadini kurdi ha rotto il silenzio, prevalso in
quel paese, su quello che i gruppi di difesa dei diritti umani hanno definito
uno dei segreti più violenti degli anni ’90: la sistematica campagna delle
Forze di sicurezza turche per bruciare i villaggi dei kurdi sospettati di
dare appoggio ai guerriglieri separatisti.
La politica della Turchia nei confronti dei kurdi ha iniziato a
diventare più conciliatoria. Ma la scena svoltasi nell’aula giudiziaria fu un
potente ricordo di quanto la brutta storia influenzava ancora i piani turchi –
inizialmente incoraggiati dall’amministrazione Bush - di dislocare le sue truppe
in Iraq, dove dai quattro ai cinque milioni di kurdi vivono nella parte
settentrionale del paese.
I gruppi di difesa dei diritti umani hanno qui detto che le
Forze di sicurezza turche hanno distrutto circa 4000 villaggi e paesini e
disperso centinaia di migliaia di kurdi. I villaggi furono distrutti durante la
feroce guerra tra il governo turco e i ribelli kurdi, con più di 30000 persone
morte.Ma
fino ad una settimana fa, secondo le leggi turche, le pratica della terra
bruciata fatta dal governo turco era una materia ancora troppo delicata per
parlarne nella stessa Turchia. Dire che le Forze di sicurezza dello stato
avevano bruciato un villaggio, dicevano, equivaleva ad una condanna a
morte.
Il
Presidente dell’Associazione turca per i diritti umani di Diyarbakir, Selhattin
Demirtas, ha riferito che molto spesso i kurdi che denunciavano la distruzione
delle loro case finivano per scomparire, così come, a volte, i loro stessi
avvocati.
Il governatore di Diyarbakir, Nusret Miroglu, ha respinto le
accuse: “Non è vero che le nostre forze di sicurezza bruciano i villaggi – e
questa è una bugia- Noi siamo un paese che rispetta la
legge”.“E’ invece possibile che siano i terroristi a bruciare i villaggi” ha aggiunto il
governatore riferendosi ai ribelli kurdi.
Il clima tra i turchi e i kurdi è bruscamente cambiato negli
ultimi mesi, da quando i leader del paese stanno spingendo per entrare nella
Unione europea. Da richieste della UE, il governo turco ha messo in atto delle
misure per espandere i diritti di 14 milioni di krudi, ai quali è sono stati da
anni negate libertà culturali e legali godute dagli altri cittadini
turchi.
Dall’anno scorso il Parlamento turco ha approvato delle leggi che
permettono alle famiglie kurde di dare nomi kurdi ai loro figli, agli insegnanti
kurdi di tenere lezioni in lingua madre e ai mezzi di informazioni kurdi di
trasmettere in kurdo. All’inizio dell’anno il governo ha eliminato le legge di
emergenza che era rimasta nella zona sud est del
paese.
La modifica delle relazioni tra il governo turco e i cittadini
kurdi è stata resa evidente dal fatto che l’udienza ha potuto avere luogo:
“quello che hai detto oggi non si sarebbe potuto dire quattro anni fa. Le
persone avevano troppa paura”- ha detto un avvocato kurdo, Meral
Bestas.Ma
la politica turca ancora non è arrivata troppo in là. Nonostante la
testimonianza di oltre 20 persone, ognuna delle quali ha raccontato la stessa
storia, il giudice del caso, Mithat Ozcakmaktasi, ha deciso che ci sarebbe
voluto ancora molto tempo prima di emettere un verdetto.
La storia raccontata
dagli abitanti del villaggio ha avuto inizio il 6 marzo del 1993. Le truppe
della gendarmeria di Uzman, truppe paramilitari attive nella regione, entrarono
a Derecik attorno a mezzogiorno e dissero agli occupanti delle casi di
abbandonare le abitazioni.Dopo che gli abitanti avevano abbandonato i villaggi le truppe,
secondo quanto detto dai testimoni, iniziarono a spargere del fosforo sui tetti
di legno e i mobili delle case.
Omer Fida, coltivatore di frutta di 56 anni, ha detto ai giudici:
“L’uomo della gendarmeria è entrato in casa mia e mi ha detto di uscire”.
Qualcuno accese un fiammifero, disse l’uomo, e 28 case furono distrutte dalle
fiamme. Fidan disse di essere riuscito a riunire un po’ delle sue pecore prima
che la sua casa sparisse tra le fiamme. Dopo di ché prese sua moglie e i suoi 10
figli, li caricò su un furgoncino e li condusse verso una nuova vita a
Diyarbakir.
Da molti racconti si conclude che la distruzione dei villaggi era
una parte della strategia turca per privare i ribelli dei loro santuari. Era
vero, disse il signor Fidan, spesso gli abitanti del villaggio di Derecik davano
cibo ai guerriglieri quando questi arrivavano al
villaggio.
Due anni fa, una Commissione parlamentare turca ha concluso che
sono stati distrutti più di 3000 villaggi e circa 378000 persone sono state
costrette a fuggire. Ma la commissione non è giunta ad alcuna conclusione sugli
autori delle distruzioni.
Non è ancora facile scoprire i dettagli di quello che successe a
Derecik, situato 50 miglia a nord di Diyarbakir, zona tuttora interdetta ai
forestieri. Un giornalista americano che tentò di recarsi sul luogo due
settimane fa fu bloccato ad un posto di controllo, dove gli fu ordinato di
tornare indietro e fu anche seguito per diverse miglia dagli agenti
dell’intelligence turca.Lungo la strada,
numerose macerie della guerra che una volta imperava. Sulla strada, circa 30
miglia fuori Diyarbakir, si trovano i resti di quello che una volta è stato un
piccolo paese: pile di vecchi mattoni, pezzi di legno e pochi resti di mobili
arrugginiti. Un cartello stradale ancora annuncia il suo nome: Angul
Una nativa di Angul, Cicek Dagtas, ha detto: “I militari
vennero e ci ordinarono di uscire, e
noi uscimmo, loro tirarono della polvere sulla casa e improvvisamente la
casa prese fuoco”.
La signora Dagtas e suo marito, Hussein, sono ora l’intera
popolazione di Angul. Dopo aver vissuto per dieci anni in un appartamento a
Diyarbakir hanno deciso di tornare al villaggio per ricominciare da capo. Sono
stati trovati sul tetto della scuola del villaggio, uno dei due palazzi rimasti
intatti, intenti a ripararlo.
Non molto lontano si trovano i resti del ristorante di Fis, il
vero luogo dove nel 1978, Abdullah Ocalan, il leader del principale movimento
guerrigliero, convocò la sua prima riunione. Il ristorante oggi è chiuso e le
sue pareti sono annerite.È stato solo grazie alla loro perseveranza che il signor Fidan e
tutti gli altri sono stati in grado di raccontare a tutti la loro storia.
Provato dalle sue perdite, Fidan, respingendo gli avvisi dei suoi amici, ha
chiesto un risarcimento. Dopo otto anni non è arrivato da nessuna parte. Adesso
ha deciso di citare il governo.
Il caso, assunto dal Presidente dell’Unione degli avvocati di
Diyarbakir e da altri tre legali, ha portato a delle contro accuse da parte del
pubblico ministero che ha accusato gli avvocati di essersi inventati la storia.
Il PM li ha accusati di abuso di potere, un crimine per la legge
turca.
“I villaggi della zona non sono stati distrutti e bruciati
dalle forze di sicurezza”, è la sentenza pronunziata dal
governo.
Sezgin Tanrikulu, il
Presidente dell’Associazione degli avvocati, ha detto di non essere stato
sorpreso dall’accusa del governo. Arrestato numerose volte dalle forze di
sicurezza, il Dottor Tanrikulu ha pensato di chiamare a testimoniare il signor
Fidan per contestare le accuse del governo.E
così, gli abitanti del villaggio, uno per uno, hanno preso parte al
processo.Il
giudice, Ozcakmaktasi, ha detto che è sua intenzione tenere un’altra udienza il
4 dicembre per prendere una decisione.“Sono stato un uomo molto paziente”, ha detto il signor
Fidan.
AFP “Il commissario europeo per l’allargamento ha
detto che la Turchia sta dando
“un’immagine confusa”. Berlino, 27 ottobre 2003
La Turchia sta ancora dando una “immagine confusa” su come sta
adempiendo alle condizioni di adesione all’Unione europea, ha dichiarato in
un’intervista pubblica il commissario europeo.Guenter Verhuegen ha detto che i leaders europei non dovrebbero
pronunciare dei sì o dei no incondizionati per l’avviamento del processo di
adesione con la Turchia, quando si incontreranno al più tardi alla fine del
prossimo anno per discutere dell’adesione di Ankara. “E’ evidente
quali raccomandazioni faremo il prossimo anno”, ha detto Verhuegen al
quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine “ma non accetto che le uniche
opzioni siano soltanto un sì o un no incondizionato. Non ci asterremo da una
raccomandazione scomoda se necessario”.
La Commissione dell’Unione europea – l’organismo esecutivo
superiore – ha come scadenza il 5 novembre per la pubblicazione annuale del
rapporto sui progressi della Turchia. Mentre un altro rapporto previsto per il
prossimo anno sarà alla base dell’incontro dei leaders europei che si terrà nel
dicembre 2004 per discutere se avviare o no il processo d’adesione. (…)
Verheugen ha sollecitato Ankara a non usare i negoziati facendo leva sulla
questione del futuro di Cipro divisa per entrare nell’UE. Allo stesso tempo, ha
detto che la continua presenza dei soldati turchi nella parte di Cipro
amministrata dalla Turchia potrebbe influenzare l’opinione pubblica
negativamente circa l’adesione.
AFP “Attivisti turchi per i diritti umani prosciolti secondo le
riforme verso l’UE”Ankara,
21 ottobre 2003
Un Tribunale per la sicurezza dello stato turco ha prosciolto da
accuse legate al terrorismo 13 persone, la maggior parte dei quali attivisti per
i diritti umani, sulla sica delle riforme legislative intese ad accelerare
l’adesione del paese all’UE, ha dichiarato uno degli avvocati della difesa.
Il procuratore inizialmente aveva chiesto la pena detentiva a 4,5
e 7,5 anni per i difensori dei diritti umani dell’Associazione per i diritti
umani (IHD), un gruppo di dirigenti, sulle basi che le loro dichiarazioni stampa
e proteste nei confronti di una
riforma carceraria erano intese “ad aiutare e sostenere organizzazioni
illegali”.Ma il tribunale martedì ha stabilito che le accuse non
costituivano più un crimine, visto che erano state abolite dalle recente riforma
adottata per allineare il paese alle norme democratiche dell’Unione Europea, ha
detto ad AFP l’avvocato Yusuf Alatas.
Il giudice ha anche accolto la richiesta da parte della difesa di
restituire computer e documenti confiscati dalla polizia durante l’incursione
effettuata nella sede dell’IHD ad Ankara nel 2001, ha detto ancora Atlas. La IHD
si è ritrovata al centro del mirino per il suo ruolo guida in una campagna
contro le cosiddette prigioni di Tipo F, nelle quali era previsto che i
dormitori collettivi da dodici persone sarebbero stati sostituiti da un sistema
a celle, da una o tre persone, riforma introdotta nel 2000.Centinaia di detenuti appartenenti ai gruppi della sinistra
estrema diedero vita ad uno sciopero della fame per protestare contro le nuove
carceri, che li lasciavano in isolamento sociale e ancora più vulnerabili nei
confronti dei maltrattamenti, sciopero che portò a 66
vittime.
Il
17 ottobre si è tenuta ad Ankara l'ottava udienza del processo a Leyla Zana e
agli altri tre ex parlamentari del DEP.
Quest'udienza si è caratterizzata per la gravità estrema della
violazione dei diritti della difesa. Eccone un breve
ragguaglio.
In aperture è stato letto il verbale della deposizione di un
testimone dell'accusa, un ex "guardiano del villaggio". Questa deposizione è
stata resa nelle settimane scorse nel carcere di Mardin, dove attualmente il
testimone è detenuto. In questa deposizione egli afferma che Leyla Zana
nell'ottobre del 1991 si trovava in un campo del PKK in Libano. In questo campo
era presente anche lui, in quanto allora militante del PKK. Leyla Zana prese
parte in questo campo a corsi politici ma non militari. Abdullah Öcalan la
invitò a darsi da fare nel contesto della campagna elettorale in corso per il
rinnovo del Parlamento, in modo che fossero eletti in esso rappresentanti di
fatto del PKK stesso. Il testimone infine in questa deposizione dichiara di non
aver mai conosciuto e di non sapere nulla riguardo agli altri tre
imputati.
L'avvocato Yusuf Alataş, che presiede il collegio della difesa, è intervenuto chiedendo che il testimone in questione venga a testimoniare in aula. Ha rilevato come in precedenti deposizioni il testimone avesse elencato fatti a carico oltre che di Leyla Zana anche degli altri tre imputati. Ha dichiarato di avere una lettera del prefetto a quei tempi di Diyarbakır che dichiara che nel periodo in cui Leyla Zana sarebbe stata nel campo del PKK ella era invece attivamente impegnata in manifestazioni e comizi nel quadro della campagna elettorale del DEP, e ha chiesto alla Corte di mettere agli atti questa lettera. Ha chiesto alla Corte di accertare presso il Ministero degli Interni se risulti oppure no dalla documentazione in suo possesso che Leyla Zana stava in quel periodo facendo una quantità di iniziative elettorali. Ha chiesto alla Corte di accertare presso il Ministero degli Esteri se risultasse l'espatrio in quel periodo di Leyla Zana. Al termine dell'udienza il Presidente della Corte ha comunicato che la Corte respingeva tutte quante queste richieste della difesa. Il processo è aggiornato al 21 di novembre. Di Silvana Barbieri