Ciao a tutti\e, vi giro la relazione di Nella.   Walter
-----Messaggio originale-----
Da: nella ginatempo <nellagin@tiscali.it>
A: walter.federica@tiscalinet.it <walter.federica@tiscalinet.it>
Data: lunedì 24 novembre 2003 20.16
Oggetto: relazione di Nella a Bobigny

Carissimo Walter, ho messo per iscritto la mia relazione svolta al seminario FIOM di Bobigny ( ho ampliato per iscritto la prima parte). Te la invio in lettura. Domani vado alla riunione del network disarmo, speriamo bene. Sentiamoci presto, ti abbraccio Nella

 

 

SOCIAL FORUM EUROPEO

PARIS-SAINT-DENIS 13-15 NOV.2003

 

SEMINARIO “VOLONTA’ DI PACE E PRODUZIONE DI ARMI: UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONE ?”  ORGANIZZATO DA FIOM (IT), IG METALL(DE), FTM-CGT (FR)

BOBIGNY, CANAL 93- 14 NOV. 14 h-17h.

 

NELLA GINATEMPO- BASTAGUERRA ITALIA

 

POLITICA DEL DISARMO E RICONVERSIONE DELL’APPARATO BELLICO INDUSTRIALE IN EUROPA.

 

Questi ultimi anni sono stati segnati da una generale politica del RIARMO in campo europeo, la quale politica influisce notevolmente sugli indirizzi e gli andamenti della produzione bellica in Italia e in Europa.

A sua volta il riarmo è causato dalle stesse cause della guerra globale che, ancor prima del sorgere dei “neocons” al governo degli Stati Uniti d’America e ben prima della dottrina della guerra preventiva di Bush junior, si sono manifestate nel processo di cambiamento del Modello di Difesa in Occidente dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

A seguito della guerra del Golfo del ’91, e mentre negli Stati Uniti Bush senior elaborava il suo documento sul Nuovo Ordine Mondiale, fondato sul primato militare degli USA, la nuova dottrina geo-politica e la militarizzazione accelerata del globo, il Ministero della Difesa italiano presentava in Parlamento nell’ottobre del ’91 il documento sul Nuovo Modello di Difesa, mai discusso o trasformato in legge in Parlamento ma di fatto messo in pratica con stanziamenti mirati di anno in anno. Questo documento fonda una nuova epoca quanto a modello di militarizzazione, filosofia dei rapporti internazionali, indirizzi di politica estera, dottrina geopolitica, e sistema di alleanze. I cardini sono un cambiamento a 360 gradi del concetto di Difesa e le conseguenze sul modo di intendere la Pace e le cosiddette missioni militari. L’idea di Difesa che prima si riferiva al territorio nazionale e al dovere dei cittadini di “difendere la patria”, viene sostituita con l’idea di difesa degli “interessi” della Nazione, “ovunque minacciati o compromessi”, per motivi di sicurezza.

Questa filosofia d’intervento riappare integralmente assunta e precisata nel documento europeo di Bruxelles ( nov.2000) che elabora la Politica estera di Sicurezza Comune ( PESC) e fonda il “Corpo d’armata di reazione rapida”, ovvero la nuova armata europea, composta da 100.000 uomini, 400 aerei e circa 100 navi. I compiti di questa Forza di reazione rapida, a cui l’Italia contribuisce con 20.000 uomini, 26 aerei da combattimento, 9 velivoli da trasporto, due tanker e l’Arma dei Carabinieri-trasformata in IV forza armata nel 2000- riguardano “ missioni umanitarie e di evacuazione di persone; missioni di mantenimento della pace;missioni di forze armate ai fini della gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace”. Dunque si tratta di organizzare missioni militari all’estero, non per difendersi da attacchi nemici sul territorio europeo o italiano, ma per imporre un ordine armato che fa esattamente l’opposto di quanto previsto dall’art. 11 della  Costituzione italiana, cioè usa la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali. Questo stravolgimento del concetto di Difesa in Sicurezza  e di Pace in tregua armata e occupazione militare di territori sovrani, corrisponde perfettamente al Nuovo Concetto Strategico della NATO, deciso dai governi ( e non dai parlamenti) nel ’99 durante la guerra  NATO contro la Serbia, guerra che per questo fu definita “costituente”. Anche qui, conformemente agli indirizzi già citati nel Nuovo Modello di Difesa (‘91), si stravolge il concetto di Difesa che consiste, da ora in poi, non più nella difesa del territorio eventualmente attaccato di uno degli Stati membri, ma nelle guerre di sicurezza ogni volta che si determinano crisi extraconfine dovute a interruzione di risorse vitali e flussi energetici, emergenze di flussi migratori, terrorismo e gravi instabilità ingovernabili.

Il parto della “guerra umanitaria” è stato così l’intensificazione del militarismo d’Occidente e la sua presentazione sulla scena del mondo in una posizione che fiancheggia gli Stati Uniti, come il nuovo esercito europeo, alleato e non avversario della NATO.

In tutto ciò è necessario sottolineare il ruolo cruciale della socialdemocrazia europea e dei governi di centrosinistra in Italia che dal ’91 ad oggi hanno teorizzato e praticato il riarmo, fomentando l’aumento delle spese militari e dunque delle commesse per armi ed equipaggiamento all’industria bellica, esattamente come hanno partecipato alla “guerra umanitaria” in Yugoslavia ed alla “guerra contro il terrorismo” in Afghanistan. L’Unione Europea ha speso nel 2002 163 miliardi  di dollari per la Difesa, che si sommano ai 358 miliardi di dollari stanziati da Stati Uniti e Canada. Per capire le dimensioni di questa spesa, oltre al suo significato politico, basti qui ricordare che la Banca Mondiale sostiene  che basterebbero 17 miliardi di dollari in un anno per affrontare la povertà nel mondo.Contemporaneamente oggi gli U.S.A. spendono 4 miliardi di dollari al mese, solo per mantenere la loro armata di 140.000 uomini in IRAQ.

L’altro pilastro su cui si fonda l’espansione dell’apparato bellico industriale degli ultimi anni è il cosiddetto liberismo delle armi e cioè l’abolizione dei vincoli al commercio e alle esportazioni di armi. Anche qui frutto della socialdemocrazia europea è l’accordo di Farnborough del 2000 che ha facilitato le esportazioni ed ha reso possibile l’attacco alla legge 185 in Italia che poneva più precisi vincoli al commercio delle armi. Nel 2002 l’Italia ha aumentato l’esportazione di armi (+ 6,62 % rispetto al 2001), che per il 34 % si indirizza verso paesi NATO-UE.

Per riassumere questa prima parte, il nuovo “militarismo di sinistra” ha accompagnato la filosofia e la pratica del riarmo e del nuovo Modello di Difesa in Europa. Questo processo si fonda sulla ricollocazione dell’Europa e della sua economia di guerra all’interno del Nuovo Ordine del Mondo e della Guerra Globale, determina l’aumento delle commesse militari ed il rilancio della produzione di armi, così come una generale torsione della spesa pubblica dal Welfare al Warfare, cioè dalle spese sociali alle spese militari.

 

ALCUNI  DATI  SULL’ ITALIA.

 

Circa gli armamenti pesanti l’Italia spenderà nei prossimi 12 anni, compreso l’attuale, 18 miliardi di Euro per l’acquisto di 121 aerei “Eurofighter” ed investirà 1910 milioni di Euro per il progetto di costruzione del “JointStrike Fighter”-velivolo d’attacco, mentre entro il 2008 spenderemo 1390 milioni di Euro per la costruzione della portaerei “Andrea Doria”. L’Italia è l’ottavo produttore mondiale delle armi pesanti ed il 50% della produzione nazionale italiana viene fatta in Lombardia. Nel  bresciano, ad esempio, la Breda (Finmeccanica) è leader europeo nella produzione di cannoni di medio calibro, la SEI carica le bombe dei Tornado, la MISAR produce le mine trovate di recente anche nei porti iracheni.

Circa la produzione di armi leggere, l’Italia è il terzo produttore mondiale e l’83% della produzione si sviluppa sempre nel bresciano, in Lombardia. Non bisogna sottovalutare le conseguenze di morte di questa produzione di armi leggere. In 15 anni di guerre le armi leggere hanno prodotto circa 10 milioni di morti tra i civili di cui 2,5 milioni di bambini. Nel mondo secondo l’ONU circolano 500 milioni di armi leggere fuori dal controllo delle forze di polizia. Si noti che le armi leggere per le loro caratteristiche tecniche sono duali, possono essere usate sia per ordine pubblico che per scopi militari come il nuovo fucile della Beretta che sarà in dotazione sia delle polizie che della NATO o il fucile a pompa della Benelli che pur essendo classificato come arma sportiva in Italia è stato venduto alle forze USA che ne fanno largo impiego ( 25 mila pezzi) anche in Iraq. Le armi leggere automatiche, non espressamente militari, non sottostanno alla legge 185/90, dunque possono facilmente essere vendute ed esportate con bassi controlli di trasparenza.

Altra notazione importante circa la produzione bellica italiana è che stiamo assistendo ad una vera riconversione al contrario ovvero da settori di produzione civile a settori di nuovi armamenti tecnologici. Si pensi al caso emblematico della Alenia, grande industria italiana di apparecchi elettronici  e satellitari, che negli anni ’80 produceva, su commessa pubblica, apparecchiature sanitarie per gli ospedali e che di recente, esaurita quella commessa e dopo aver chiuso quella linea di produzione, ha assunto una commessa privata di una multinazionale USA per produrre un pezzo dello “scudo spaziale”, punta di diamante dei nuovi armamenti USA in campo spaziale ed atomico.

Tutto un vasto settore della ricerca scientifica e tecnologica, poi, finanziato dalle più grosse multinazionali dell’apparato bellico, sta orientando le proprie ricerche verso gli scopi militari, facendo da traino alle produzioni più avanzate di cui solo indirettamente beneficia l’industria civile.

 

LA PROSPETTIVA DEL DISARMO

Il movimento per la pace ha da tempo interpellato il movimento sindacale sul tema della produzione bellica, ponendo la necessità di cambiare prospettiva, di sostenere una riconversione di tutta l’economia di guerra, dalle spese militari, alla ricerca, alla produzione e commercio di armi.

Gli ostacoli sociali che vengono dal mondo del lavoro sono notevoli nei confronti di questa prospettiva, perché  molti ritengono che tutto il riarmo europeo potrebbe sostenere l’espansione delle aziende del settore e che la guerra globale costituisce la più grande garanzia per gli sbocchi di mercato della produzione bellica.

Si noti però che, anche volendo restare prigionieri di un’ottica economicistica,  condizionata dal problema dell’occupazione di migliaia di operai, non si può fare a meno di notare che in molti comparti l’occupazione è scesa negli ultimi anni per effetto di decentramenti produttivi verso altre aree come quelle dell’Europa dell’Est e per effetto di ristrutturazioni tecnologiche e innovazioni produttive. Secondo fonti FIOM  la Beretta, fabbrica leader del settore armi leggere in Italia, è passata da 480 miliardi di fatturato a 1200 miliardi negli ultimi 10 anni ma ha abbassato l’occupazione da 5000 a 2100 addetti. Questo esempio dimostra che il problema occupazionale va affrontato comunque con una diversificazione delle produzioni ed una riconversione di queste fabbriche. La prospettiva del disarmo e la progettualità di nuove produzioni civili può fornire una prospettiva anche occupazionale e di nuove risorse economiche per interi territori.

Ma questo significa assumere da parte dell’intero movimento sindacale la prospettiva della pace non solo come un articolo della Costituzione italiana o di quella futura europea, ma come nuova politica economica generale che riconverta l’economia e lo Stato dal Warfare al Welfare.

Tutto ciò è strettamente collegato alla prospettiva del movimento antiliberista poiché lo sviluppo dello Stato Sociale  e lo stop alle privatizzazioni ed alla violenza del libero mercato globale vanno nella direzione di un ampliamento della occupazione nel settore dei servizi sociali e della domanda sociale complessiva. Si tratta dunque di scegliere quale modello di riequilibrio economico e sociale vogliamo per la nuova Europa, come vogliamo destinare le risorse a quali produzioni, a quali servizi, per quali scopi. Se vogliamo edificare l’Europa della pace, dobbiamo ragionare insieme tra le varie anime del movimento ed a scala territoriale sia globale che locale.

Prospettive differenti da quella del disarmo e della riconversione dell’industria bellica non sono credibili né efficaci dentro l’orizzonte complessivo del movimento per la pace e contro il capitalismo globalizzato. Infatti l’ottica della proprietà pubblica o delle partecipazioni statali nell’industria degli armamenti non porta affatto ad una riduzione del danno ma si inscrive invece in un ampliamento del Warfare in chiave pubblica e protezionistica anzichè liberista. Passare da un’economia di guerra privatistica ad una economia di guerra parapubblica non cambia le prospettive e soprattutto gli effetti in termini di riarmo e guerre.

Rimanere ancorati all’ottica vincolistica e del controllo sulle transazioni e commercio di armi, alla prova dei fatti e dopo l’Europa di Farnborough, risulta insufficiente e frustrante. La produzione di armi ha bisogno di guerre come mercati e attivamente cerca di produrle.

Anche ammesso- ma è altamente improbabile- che si riesca a impedire con nuove leggi che l’industria europea di armi smetta di vendere agli USA, considerato paese belligerante e dunque minaccia alla pace, rimane la domanda: a chi venderebbe la produzione di armi in Europa ? Appare evidente la risposta obbligata : alla stessa Europa col nuovo mercato costituito dalla nuova armata europea e dalle nuove missioni militari “umanitarie” o di “peacekeeping” come quelle dell’Afghanistan, e prima ancora della Somalia e della Yugoslavia e oggi dell’Iraq. Ma il movimento per la pace non potrà accettare questo sbocco politico, avendo già detto no alla militarizzazione europea e alla corsa agli armamenti.

D’altra parte, non è credibile sul piano degli effetti pratici neanche la sola prospettiva costituzionale ( inserire nella Costituzione Europea il ripudio della guerra). Infatti l’Italia ripudia la guerra in Costituzione ma poi vende le armi agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita tanto per fare un esempio, ed equipaggia con armi le “missioni di pace” ( che intollerabile mistificazione) dei 3000 soldati in Iraq. E’ necessaria dunque una reale politica per il disarmo e la riconversione della produzione bellica verso usi civili, senza di che  il dettato Costituzionale risulterebbe inerte e ignorato.

La prospettiva di mutamento globale deve necessariamente intrecciarsi al progetto locale di riequilibrio del territorio attraverso la rete di soggettività presenti, di cui il sindacato è partecipe.

L’ultima osservazione è che il disarmo è soprattutto una rivoluzione culturale, prima ancora che economica, e solo un sindacato che si lasci contaminare dai nuovi contenuti di questa rivoluzione culturale può avere la forza, la coesione e l’autorità politica per produrre un mutamento economico e sociale così profondo e traumatico anche per la stessa forza lavoro sindacalizzata delle fabbriche d’armi.

 

Nella Ginatempo, Parigi, 14 novembre 2003