Da anni ormai non frequento più i banchi di scuola, così non so più se oggi sia ancora previsto dai nostri programmi scolastici l’insegnamento dell’Educazione Civica. Ai miei tempi era uso comune affermare l’importanza primaria di questa materia e del suo insegnamento fin dalla Scuola Media Inferiore. Allo stesso tempo però e in modo contraddittorio, se ne lamentava la scarsa considerazione di cui godeva nei programmi scolastici, sempre preferita com’era all’insegnamento della Storia cui era associata e puntualmente sacrificata da insegnanti, che non riuscivano mai a far quadrare programmi che pretendevano di spiegare in tre anni al malcapitato alunno migliaia di anni di storia, dalle Piramidi al 2 Giugno. Di quelle pochissime e scarne nozioni che mi vennero impartite, anche con l’ausilio di un bel commento alla Costituzione di N.Bobbio, ricordo ben poco, ma sicuramente ricordo come l’insegnante dell’epoca si sforzasse di farci comprendere l’importanza del voto cui ogni cittadino ha diritto; e come sia importante che questo diritto sia esercitato; e come il suffragio universale costituisca una pietra miliare nella storia dell’uomo e nella storia della democrazia; e ancora come uno dei segni distintivi dei regimi totalitari, sia proprio la sottrazione al cittadino di questo suo diritto; e uno dei segni distintivi della decadenza nella vita di un Paese democratico, sia proprio il non esercizio del diritto di voto (andare al mare piuttosto che passare per qualche istante da una cabina elettorale). E tanta era la suggestione che ci veniva trasmessa, in parte in modo forse anche demagogico, che realmente l’esercizio di questo diritto la prima volta era accompagnato da emozione e orgoglio. Per me questo avvenne non in elezioni a carattere politico, ma in occasione delle ben più innocue elezioni del Consiglio d’Istituto del Liceo, e ricordo ancora l’emozione e l’apprensione di quel giorno.

Ripensavo a tutto questo leggendo la lunga teoria di Movimenti e Partiti politici e Associazioni, e in ultimo anche l’Associazione di cui faccio parte, le Acli bresciane, che in occasione del referendum sull’art. 18 previsto per i prossimi 15 e 16 giugno, consigliano, si badi bene, non di andare a votare scheda bianca, ché anche questo sarebbe diritto sacrosanto del cittadino, ma di non andare proprio a votare, di non esercitare cioè quello che fino a poco tempo fa ci veniva additato come un diritto e un dovere della persona. Meglio andare al mare, viene persino detto da taluni. E già cerco di immaginarmi stabilimenti balneari e città di mare, tutte intente a preparare e programmare questo precoce inizio delle ferie degli italiani. Talora ci viene addirittura descritta con dovizia di particolari l’eticità di questa scelta: sicché nell’Italia del nuovo millennio diventa eticamente preferibile andare al mare, piuttosto che andare a votare…

 

Quando poi si arriva a intendere le ragioni di tanta ostilità, ecco palesarsi un nuovo arcano: poiché se i promotori del referendum affermano la necessità che questo famigerato art. 18 che, come si sa, prevede oggi il reintegro nell’azienda del lavoratore ingiustamente licenziato per le sole aziende con più di 15 dipendenti, ma che essi vorrebbero esteso anche alle piccole imprese, gli altri sostengono all’opposto la necessità che questo referendum venga fatto fallire e proprio, si noti, per tutelare meglio quegli stessi lavoratori (sic), ché il danno che ad essi deriverebbe, se questo referendum passasse, sarebbe irreparabile!

Altri ancora propagandano la necessità di andare al mare, piuttosto che andare a votare, perché l’eventuale successo del referendum non estenderebbe la tutela del reintegro al grande popolo dei lavoratori parasubordinati (co.co.co.; partite iva; ecc.). Facendo un paragone è come dire che, siccome l’azione di una singola piccola O.N.G. tutta impegnata contro la fame nel mondo, non riuscirà mai da sola a debellare la fame completamente e da ogni paese, tanto vale che questa O.N.G. cambi obiettivi o si sciolga definitivamente.

E poi vi sono quanti sostengono che in realtà la materia in esame necessiterebbe di un intervento normativo ben più ampio e organizzato ed efficace, tale cioè da regolamentare la materia in modo più organico di quanto non possa fare un referendum, e magari, chissà, estendendo le tutele anche ai lavoratori parasubordinati. E dunque, ancora una volta, questo referendum va fatto fallire. E certo questa posizione parrebbe la più condivisibile, se non fosse che fra il mondo dei sogni e la realtà esiste il risveglio, cui ognuno di noi ogni mattina è costretto. Così costoro dimenticano o paiono dimenticare che in realtà questo intervento legislativo, con questo Governo e con questa Maggioranza parlamentare, non avverrà mai; ché semmai la tendenza legislativa dalla Riforma Treu del 1997 va in senso opposto: de-regolare; de-strutturare; semplificare; la chiamano flessibilità, è diventata precarietà. E del resto per quale motivo il datore di lavoro dovrebbe fare ricorso al lavoro parasubordinato o al lavoro interinale, piuttosto che ai tradizionali contratti di lavoro subordinato, quando anche per quelle forme contrattuali il legislatore dovesse prevedere le medesime tutele che sono previste per il lavoratore dipendente?

In mezzo a tutto questo bailamme di posizioni e opinioni e consigli e dettati e comunicati stampa, rimane il lavoratore delle piccole aziende che in Italia oggi si trova spesso a corto di tutele sindacali, quando addirittura non è soggetto alla disciplina del parasubordinato e ai ricatti che ne derivano. In una ricerca condotta con Censis e Iref, le già citate e, ahimé, contraddittorie Acli rivelano come il lavoratore parasubordinato rischia di essere un precario a vita, che spesso non solo deve rinunciare alla costruzione di una propria famiglia, ma può mantenere un tenore di vita soddisfacente solo col sostegno economico del nucleo familiare di provenienza. Sicché il distacco da esso e l’emancipazione dai genitori viene spesso rimandata sine die: trionfo del giovanilismo e rifiuto dell’assunzione delle responsabilità.

Come credente e praticante non posso fare a meno di ricordare a me stesso le parole con cui il sacerdote durante la Messa consacra vino e pane a Sangue e Corpo di Cristo: il vino <<frutto della vite e del lavoro dell’uomo>>; il pane <<frutto della terra e del lavoro dell’uomo>>. La vite, la terra e il lavoro dell’uomo. Dunque il lavoro che partecipa al più grande e fondamentale mistero del Cristianesimo: il sacrificio del Dio fatto uomo che ogni giorno si compie e, si badi, può compiersi solo col decisivo contributo del lavoro dell’uomo. E anche da qui la nobiltà e l’eticità del lavoro dell’uomo. Poiché <<non c’è differenza tra chi pianta e chi irrìga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro>> (Cor). La nobiltà del lavoratore che al lavoro si dedica e che <<è degno della sua mercede>> (Lc).

 

E a questo punto il dramma di questo nostro tempo è completo: dove si chiede ai cittadini di andare al mare, piuttosto che andare a votare; dove il lavoro, nell’attuale normativa e nell’altra che forse presto verrà, è ridotto a oggetto d’affitto, di appalto e subappalto, ad uso e abuso di datori di lavoro qualche volta privi di scrupoli. E il lavoratore non è più persona ma, anche linguisticamente, è ridotto a mera <<risorsa umana>>.

Il 15 giugno andrò a votare, forse con quella stessa emozione che provai in occasione del mio primo voto. E voterò sì.

E poi, magari, andrò anche al mare.

 

 

Luigi Lacquaniti

presidente ACLI dei Circoli del basso Garda bresciano

referente aggiunto del Nodo Morenico di Lilliput