Carissim*,condivido il contributo dei compagni di erre, e li ringrazio per aver tentato di aprire una discussione su questo importante argomento, ho qualche perplessità sulla questione "resistenziale", nel senso che non mi piace l'idea di riconoscere a priori tutto ciò che resiste sia pur ad una forza di occupazione senza sapere obiettivi e forme del resistere( quelle attuate oggi non piacciono), non ho nessuna proposta organica da addurre, ma istintivamente rimango sempre "malfidente" di fronte a ciò che non capisco.
 
A me pare evidente che la guerra in iraq sia per gli usa un esperimento politico militare, un specie di Guernica del 21° secolo, per capire la fedeltà degli alleati la loro tenuta, capire lo spazio di manovra in ambito mondiale, verificare la reazione dei movimenti, Capire se il fattore Vietnam è ancora presente nelle coscienze non solo americane, l'obittivo USA è l'egemonia politico militare del pianeta, e conseguentemente la sconfitta delle nuove superpotenze( cina, india) da un lato e l'eliminazione della lotta critica di vasti strati di società.
E' evidente che gli usa stanno facendo la guerra anche per il controllo del petrolio e delle zone geopolitiche strategiche, ma questo è "solo"un  risultato secondario( come dire uniamo l'utile .. all'utile).
 
Da queste mie farneticanti analisi ha orla mia perplessità sulla resistenza, e tralasciando per un momento la questione sulle modalità cerco di spiegarmi.
 
Se gli usa ed i suoi scherani, non ci tengono più di tanto a rimanere in iraq ( al dilà degli attacchi resistenziali), staranno già contrattando con i maggiorenti dell'iraq(sceicchi, e  leader vari) il loro disimpegno dall'area, premurandosi di consegnare i pozzi di petrolio e il controllo militare del territorio ai loro fiduciari locali.
  
Allora mi chiedo quanti di quei maggiorenti non siano a capo della resistenza, e quanti sono disponibili a dividere il potere con la società, non è che finito Saddam questi si comportino pari pari al vecchio dittatore( magari lo hanno già promesso a Bremer!).
So' bene che parte della resistenza è prodotta dalla popolazione che si è trovata tonnellate di armi a disposizione, ma questa popolazione quanto è strutturata e lontana dalle scelte autoritare dei maggiorenti?
 
Non vorrei che la situazione irachena diventasse un po' come la "rivoluzione" iraniana degli ayatollah, ben vista anche da ampia parte della sinistra.
 
Non molto tempo fa in tv ho visto un servizio sull'incontro tra l'autorità provvisoria a Nassiria e 25 sceicchi della zona( i famosi maggiorenti), ognuno di loro controlla circa 15 mila persone, piccoli eserciti e piccole comunità, questi sceicchi erano all'incontro per testimoniare "leale" appoggio all'occupante, ( e in cambio cosa vogliono? E come faranno a dimostrare fedeltà?).
 
Ecco che allora il riconoscimento di una resistenza per la autodeterminazione dell'Iraq diventa per me difficile da capire.
 
Abbiamo( Ho) pochi elementi per capire e per decidere, ed è per questo che credo che dovremmo supportare quelle organizzazioni che sono impegnate in iraq da tempo( un ponte per, ics,.....) perchè sono i soggetti che possono darci una mano a capire ed ad agire, mi piacerebbe pensre queste compagne e compagni i nostri ambasciatori, e che il tavolo per gli aiuti all'Iraq diventi il nostro ministero degli esteri, per fare ciò dobbiamo cominciare ad elaborare insieme organizzando incontri pubblici, e raccogliere fondi sia per mandare aiuti alle popolazioni sia per supportare " i nostri osservatori\ambasciatori".
 
   Ciao Walter 
-----Messaggio originale-----
Da: Felice Mometti <felmarg@tin.it>
A: bsf@bresciasocialforum.org <bsf@bresciasocialforum.org>
Data: giovedì 4 dicembre 2003 15.05
Oggetto: [Bsf] no all'occupazione in Iraq - contributo al dibattito

 
 
ciao a tutte/i,

vi proponiamo questo (lungo - ma pensiamo che sia importante 
cercare di approfondire alcune questioni) contributo al dibattito del 
movimento contro la guerra.

un abbraccio, Piero, Salvatore, Felice, Luciano 


No alla guerra "senza se e senza ma" - No all'occupazione 
militare "senza se e senza ma"


La ripresa dell'iniziativa contro la guerra - dopo il Forum Sociale 
europeo di Parigi e le manifestazioni del 22 novembre in Italia - per
 quanto ancora  da sviluppare, ci sembra l'occasione per intervenire
 in un dibattito che si è aperto dentro il movimento contro la guerra,
 con un contributo alla discussione che vuole entrare nel merito di 
alcuni nodi emersi in questo dibattito, evidentemente cruciali per  
far crescere la consapevolezza e l'analisi critica del movimento.

1 - La fine immediata dell'occupazione militare dell'Iraq e il ritiro 
delle truppe straniere che partecipano a tale occupazione 
rimangono gli obiettivi primari del movimento contro la guerra in 
questa fase.
Questo obiettivo è la conseguenza diretta della nostra opposizione 
alla guerra ("senza se e senza ma") - perché l'occupazione 
militare, in Iraq come in Afghanistan, è la forma concreta e attuale 
con cui viene combattuta in quei territori la "guerra infinita" - ben 
definita dal movimento come "guerra globale permanente".
Così come la guerra globale non è la "risposta" - per quanto 
"sbagliata" - al terrorismo, ma persegue obiettivi e strategie 
proprie, in Iraq l'occupazione militare non è la risposta ad una 
situazione caratterizzata da una generica violenza o dal caos: 
l'occupazione militare è parte principale del problema - causa 
scatenante della violenza oggi diffusa in tutto il territorio iracheno.
in Iraq la dittatura di Saddam Hussein, tre sanguinose guerre 
(contro l'Iran negli anni '80 e poi le due guerre chiamate "del Golfo" 
- con i bombardamenti contro la popolazione civile) e oltre dodici 
anni di embargo voluti e ferocemente messi in atto dagli stessi 
paesi che hanno voluto e combattuto l'invasione del paese nella 
scorsa primavera (purtroppo con il complice appoggio di quasi tutti 
i governi, europei in prima fila - fossero essi di centrodestra o 
centrosinistra), hanno provocato una crescente disgregazione 
sociale e enormi sofferenze per tutta la popolazione irachena. 
Sappiamo che questa situazione di disgregazione sociale e di 
potenziale conflitto tra i vari settori della società irachena - per la 
quale la guerra scatenata dagli angloamericani porta la principale 
responsabilità - non potrà essere risolta solamente con la fine 
dell'occupazione militare, ma sappiamo anche che questa 
occupazione ne è allo stesso tempo una delle cause e il principale 
catalizzatore della crescente violenza armata e terroristica (che 
come diremo oltre, non possiamo considerare sullo stesso piano).
La cosiddetta "comunità internazionale" ha un enorme debito nei 
confronti della popolazione irachena - per quello che ha contribuito 
a farle subire in questi anni: oggi questo debito si deve ripagare 
restituendo immediatamente agli iracheni (attraverso le loro forze 
politiche, sociali e culturali che stanno organizzandosi) la sovranità
 sulla costruzione delle proprie istituzioni e la libera scelta del 
proprio futuro - garantendo internazionalmente che queste scelte 
possano essere prese in piena libertà e autonomia: non possiamo 
condividere il retropensiero di chi chiede che sia l'Onu a svolgere 
una funzione analoga a quella degli occupanti angloamericani, 
continuando a considerare gli iracheni infantili o pericolosi per loro 
stessi, la regione o il mondo intero.
In questo senso ci sembra importante elaborare una proposta, a 
partire dall'appello del movimento contro la guerra statunitense per 
il 20 marzo, da quello dei movimenti sociali europei del Fse e da 
quello italiano elaborato a Parigi per le manifestazioni del 22 
novembre e dalle "6 idee per la pace" elaborate dall'associazione 
"Un ponte per.".
L'Iraq non va "posto sotto tutela" internazionale: gli iracheni vanno 
sostenuti nelle loro decisioni e nella loro conquista 
dell'indipendenza e libertà. Un sostegno che potrà significare 
anche l'invio di forze internazionali che garantiscano una 
transizione non violenta e la stabilizzazione di istituzioni 
indipendenti (forze alle quali non devono in alcun modo partecipare 
i paesi che hanno voluto e appoggiato la guerra) ma innanzitutto 
sulla base di un effettivo processo di autodeterminazione e che 
dovrà vedere soprattutto l'impegno diretto delle società civili e dei 
movimenti sociali di tutto il mondo (in primo luogo quelle europee e 
degli Stati Uniti - per costruire un rapporto paritario e cooperativo 
con quella popolazione che faccia scordare le relazioni coloniali 
finora praticate dai "nostri" governi) - come già sta avvenendo d 
esempio con iniziative come quella italiana del "Tavolo di 
Solidarietà con le popolazioni dell'Iraq" (appoggiata esplicitamente 
dall'insieme del movimento antiguerra e che non casualmente 
rifiuta ogni rapporto con i militari occupanti) o quella internazionale 
del "Occupation Watch Center", che contribuisce a sviluppare 
un'informazione indipendente su quanto avviene in Iraq.

Per questo pensiamo che sia ancora centrale per il movimento 
contro la guerra la richiesta del ritiro delle truppe italiane dall'Iraq e 
che sia una pericolosa ambiguità parlare di "modificare il senso 
della missione": la presenza delle truppe italiane è illegale, 
illegittima e politicamente ingiusta, e non è nemmeno la risoluzione
 1511 dell'Onu  a fornire quella presunta legittimità. 

2 - In questa situazione non si sembra allora utile e positivo il 
generico appello per il "cessate il fuoco" o per la "fine delle 
violenze" promosso da Emergency: se siamo d'accordo a voler in 
ogni modo fermare la spirale guerra/terrorismo, non pensiamo che 
siano di aiuto appelli da "leggere  tra le righe" - nei quali manca 
completamente una segnalazione dei soggetti responsabili di 
quanto sta avvenendo. Cosa significa appellarsi a "chi sta 
praticando e progettando attentati e guerre" - senza mai nominare 
esplitamente coloro che parlano "in nome nostro". Non si tratta di 
fare una graduatoria delle violenze o delle responsabilità - ma 
aiutare a comprendere come si è arrivati in questa situazione, quali
 sono le strategie che i nostri "democratici" governi hanno costruito 
e praticato in questi anni - in Africa, in medioriente, in Asia - 
costruendo o sviluppando le condizioni per la crescita delle 
violenze e della guerra.
Cancellare dagli appelli politici precise richieste politiche ci sembra
 in questo momento fuorviante - una concessione ad un "pacifismo
 generico" che anche coloro che hanno firmato l'appello hanno in 
questi anni contribuito a superare.
Perché ci si è scordati di nominare le occupazioni militari come 
forma di guerra a cui porre termine immediatamente (quindi 
esigendo il ritiro delle truppe)?
Non ci convince in questo senso neanche il passaggio della lettera 
che il "Glt nonviolenza" della Rete Lilliput quando afferma che 
"risulta addirittura inutile insistere per un ritiro immediato delle forze
 armate dell'Italia . perché la richiesta stessa alimenta risposte 
improntate a valori nazionalisti e al peggior patriottismo": è proprio 
per contrastare questi falsi valori, coltivati e propagandati dal 
governo e da gran parte dei media, che il movimento deve 
mantenere ferme le sue ragioni e le sue proposte politiche; non per
 contrapporsi alle migliaia di donne e uomini che sinceramente
sono  stati colpiti dalle morti di Nassiryia, ma per continuare a
rivolgerci a  loro con la consapevolezza delle cause che hanno
portato a quelle  morti, delle responsabilità politiche del governo
che ha voluto quella  "missione" e dell'impegno di solidarietà con il
popolo iracheno che  stiamo praticando (come scriveva Brecht
sugli "elmi dei vinti" , "il  giorno in cui siete stati vinti. fu quel primo
giorno. quando vi  siete messi sull'attenti e avete cominciato a
dire si" - forse è il  momento di recuperare anche la nostra
tradizione antimilitarista  per la quale "il nemico marcia sempre alla
tua testa").
Se siamo convinti - e mi sembra che su questo concordiamo - 
che le forze armate italiane sono forze di occupazione militare, 
abbiamo il dovere di chiedere il loro ritiro immediato.

Ci sembra in questo senso molto interessante la consapevolezza 
del "mai più in nostro nome" che ha invece prodotto importanti 
prese di posizione, come quella che Farid Adly ha rivolto agli 
intellettuali arabi e musulmani affinché condannino e combattano 
con decisione le forze terroristiche. Allo stesso modo noi dobbiamo
 opporci con forza alla "nostra" tradizione coloniale e di guerra - 
opponendoci alle politiche di guerra dei "nostri" governi.

3 - Il movimento ha sempre espresso con chiarezza la condanna 
esplicita e decisa delle azioni terroristiche e delle reti che le 
programmano e conducono: questa condanna è la conseguenza 
della caratteristica fondamentale del movimento stesso, che si 
basa sulla crescita della partecipazione politica e sociale di massa
 e il rifiuto della guerra - per questo già nei giorni subito seguenti 
l'11 settembre 2001 manifestavamo (anche a fianco dei movimenti 
pacifisti degli Stati uniti) "contro la guerra e contro il terrorismo".
La violenza terroristica è l'esatto opposto di quello che vuole e 
pratica il movimento: non solo distrugge vite umane, ma si pone 
come obiettivo l'espropriazione della partecipazione popolare e 
sociale, che invece rimangono il solo strumento e la sola forza a 
disposizione del movimento. 
La condanna e la mobilitazione contro le azioni e le reti 
terroristiche non possono però in alcun modo farci accettare una 
categoria indistinta e opportunistica di "terrorismo" - che 
comprenderebbe qualsiasi forma di rivolta o di resistenza armata 
(che di fronte ad un'occupazione militare è comunque legittima, 
fino a quando si rivolge contro gli occupanti e non è diretta 
indiscriminatamente contro i civili - qualsiasi sia il giudizio che poi 
diamo sulle azioni e sulle forze che praticano questa resistenza 
armata): è questa la nozione di "terrorismo" che cerca di 
propagandare la stessa amministrazione Bush, sulla stessa 
lunghezza d'onda di Sharon o Berlusconi, inserendo in tale 
categoria tutto quello che non contasta o non è compatibile con la 
sua visione unipolare e con le sue strategie egemoniche globali: 
come scrive Raniero La Valle sulla "Rivista del Manifesto" dello 
scorso novembre "gli impuri, i non rassegnati, le 'canaglie', i 
terroristi, i titolari del diritto di ribellione, evocato dalla Dichiarazione
 universale dei diritti dell'uomo del '48".

Oggi non è in corso una "guerra di civiltà" (della quale le religioni 
sarebbero il fondamento) - non c'è in atto uno scontro globale tra 
due soggetti "antagonisti": al contrario è dentro il processo di 
globalizzazione capitalistica, dentro le logiche di dominio globale, 
che nascono le strategie di riempimento degli spazi che 
accomunano i "signori della guerra" - siano essi presidenti 
regolarmente eletti o miliardari sauditi arricchiti dentro le 
speculazioni del sistema finanziario e i commerci globali di armi e 
simili. E' in questi spazi economici, politici e sociali, asimmetrici a 
un processo di globalizzazione economica che, anch'esso, 
espropria miliardi di persone del proprio destino, che si radicano e 
crescono quella reti terroristiche - che non sono certamente una 
"rappresentanza degli oppressi e degli sfruttati" (in nome dei quali 
pretendono di parlare) e nemmeno una "alternativa di sistema" - 
ma una forma di quello stesso sistema che il movimento dei 
movimenti in tutto il mondo sta cercando di sconfiggere sulla 
strada del "altro mondo necessario". 
Il progetto di Al Qaeda è evidentemente un progetto di alcune 
classi dirigenti arabe che puntano a destabilizzare interi paesi e a 
candidarsi come carta di ricambio. In Arabia Saudita o in Turchia il 
progetto è ben visibile.
Diverso è il caso di quelle organizzazioni che utilizzano metodi 
terroristici come tragico strumento della loro battaglia politica - uno
 strumento che in nessun modo possiamo ammettere e tollerare. I 
"kamikaze" del 11 settembre 2001 non sono la stessa cosa degli 
attentatori suicidi palestinesi - non perché questi ultimi sono in 
alcun modo "giustificabili", ma perché sono il frutto avvelenato di 
una condizione esistenziale di disperazione, indotta anche in quel 
caso da decenni di occupazione militare e repressione quotidiana. 
Naturalmente vi sono soggetti politici che sfruttano questa 
disperazione - ma senza comprendere questa non potremo mai 
aiutare un processo di rifiuto degli attentati. 
Allo stesso modo, l'attacco ai soldati italiani a Nassiryia, chiunque 
sia il responsabile, non è "l'11 settembre italiano", ma la 
conseguenza tragica della partecipazione italiana all'occupazione 
militare angloamericana dell'Iraq.


Il terrorismo non è però in nessun modo la "conseguenza 
necessaria" delle drammatiche condizioni economiche, politiche e 
sociali che vivono intere popolazioni e tantomeno il "giusto 
compenso" che raccolgono i responsabili di quelle condizioni: 
molte sono le cause e le condizioni su cui crescono i terrorismi - 
ma è chiaro che senza affrontare quelle drammatiche condizioni e 
rendere quelle popolazioni nuovamente titolari delle proprie scelte, i
 terrorismi non potranno essere sconfitti.
Quando scriviamo e diciamo che il movimento è il principale 
antidoto e avversario del terrorismo intendiamo proprio questo - 
solamente costruendo partecipazione popolare e protagonismo 
sociale sulla strada delle alternative possiamo chiudere gli spazi 
alle politiche di guerra e terroristiche.

4 - Dentro la crescita dell'iniziativa contro la guerra è cresciuto 
anche il dibattito sulla "nonviolenza" - e allo stesso tempo le 
richieste inaccettabili di "ripudiare la violenza" fatte da chi invece 
continua a pensare e praticare la guerra come strumento 
"possibile" della politica, con i suoi interventi militari, l'aumento 
delle spese militari ecc: non è a questi personaggi, evidentemente,
 che siamo chiamati a rispondere, perché non hanno alcun titolo
per  darci lezioni!
Il rifiuto di pratiche violente - perlopiù finalizzate 
all'autorappresentazione di sé o alla costruzione di un'identità - e 
della separazione tra mezzi e fini crediamo sia una caratteristica 
ormai diffusa e condivisa del/nel movimento - e dobbiamo 
continuare a operare perché lo sia sempre di più.
Il dibattito che dobbiamo affrontare - senza alcun timore o 
atteggiamento difensivo - non può però partire da assunti ideologici
 (per cui la nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede 
aprioristica) ma nemmeno dall'idea della nonviolenza come 
semplice "pratica" o metodologia. 
Dobbiamo lavorare per un'alternativa di società non violenta, 
riconoscibile anche nel suo percorso di formazione ma 
l'opposizione ai processi di espropriazione sociale e alla violenza 
delle politiche di guerra può rendere necessaria la resistenza, la 
disobbedienza civile, il boicottaggio, il "sabotaggio" delle leggi 
ingiuste e illegittime (pensiamo alla Bossi-Fini, ma anche alla 
legge 30, alle spese militari o alla presenza di basi e depositi 
militari sul territorio ecc.). 
Il problema, secondo noi, è la visuale da cui si guardano a queste 
azioni e il metodo delle lotte. Siamo convinti dell'inevitabilità del 
conflitto sociale, anzi della sua necessità per far avanzare una 
nuova società. Ma il conflitto sociale è utile ed efficace solo se 
coniugato al consenso, alla partecipazione popolare, alla 
democraticità delle scelte e delle decisioni comuni. Le forme di 
lotta vanno individuate sulla base di un criterio fondamentale: 
quanto più riescono a rafforzare la partecipazione, il protagonismo, 
la consapevolezza delle proprie ragioni, la coscienza di sé, dei 
propri obiettivi il coinvolgimento nelle pratiche, l'allargamento delle 
lotte, tanto più sono giuste e necessarie. Altrimenti si corrono due 
rischi speculari: l'avanguardismo fuori tempo massimo, il dirigismo 
"machista" e muscolare oppure la subordinazione al pensiero, e 
agli interessi, dominanti sempre in cerca di sterilizzazioni 
ideologiche di qualsiasi tipo di conflitto.


Sperimentare nuove forme di conflitto sociale e politico, nuove  relazioni tra
mobilitazione sociale e consenso, tra partecipazione e  costruzione di spazi
pubblici sottratti al dominio del mercato e  della violenza - questo è il
terreno di confronto e di lavoro a cui  siamo chiamate/i, tutte/i insieme.

Tutte/i insieme, al Fse di Parigi, abbiamo deciso che il 20 marzo  sarà una
giornata internazionale contro la guerra e le occupazioni  militari,riprendendo
la proposta del movimento contro la guerra  degli Stati Uniti. 
E' molto importante costruire questa scadenza nelle forme più  unitarie che il
movimento sarà capace di darsi a partire dalla  riunione del Gruppo di continuit
à allargato del 7 dicembre. 
Ci sembra utile, però, richiamare l'attenzione sulla necessità di un
 approfondimento tematico - seminariale e
assembleare - del movimento (a partire dalla proposta del tavolo 
Bastaguerra) per non nascondere le differenze tra noi, ma 
valorizzarle ecomunicarle e costruire, così meglio, una 
consapevolezza comune e l¹affermazione delle nostre ragioni 
condivise.

Salvatore Cannavò, Piero Maestri, Felice Mometti, Luciano 
Mulhbauer - redazione "Erre"