A Roma i kurdi avviano uno sciopero della fame di protesta contro
i dinieghi al riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Alla
stampa e all’opinione pubblica.
Noi esuli kurdi in Italia, ci troviamo in condizioni ormai
drammatiche per cui abbiamo avviato un sciopero della fame, intenzionati a
richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su come ci troviamo a vivere in
questo paese, da richiedenti asilo oppure, ultimamente, da persone che hanno
avuto il diniego e l’intimazione a lasciare il paese.
Permetteteci
di raccontarvi da che situazione arriviamo e chi siamo, affinché possiate
comprendere la complessità della situazione che ci
opprime.
I
kurdi, un popolo di 40 milioni di individui il cui territorio dopo la Prima
Guerra mondiale è stato diviso fra quattro stati, sono la più grande nazione al
mondo senza riconoscimento alcuno.
Per
di più rappresentiamo qui la comunità di kurdi provenienti dalla Turchia. Che
cosa significa questo? La Turchia è un paese dal quale dobbiamo scappare,
abbandonando affetti e beni perché in quella terra siamo perseguitati, perché i
nostri diritti non sono garantiti, perché la nostra identità culturale e
linguistica è negata.
Purtroppo,
però, ultimamente le nostre storie di fuga non finiscono con la speranza di una
nuova vita da cominciare in un paese che ci accoglie e concede asilo,
soprattutto qui in Italia.
Negli
ultimi mesi, infatti, la Commissione centrale per il riconoscimento dello
status di rifugiato rifiuta di riconoscerlo alla maggioranza di noi,
motivando i dinieghi che ci vengono presentati con motivazioni inconsistenti e
di valenza solamente contingente, con motivazioni che non tengono invece in
alcun conto di qual è la realtà della Turchia oggi, di come sono le condizioni
in cui i kurdi vivono.
Negli
ultimi 20 anni i kurdi di Turchia hanno risvegliato la propria coscienza
nazionale, hanno ingaggiato una lotta per la propria determinazione e una
battaglia su ogni campo per ottenere i propri diritti e le proprie libertà.
Questo non è significato altro che ulteriori repressioni, persecuzioni, torture
e morti.
Nei
quindici anni di lotta per la libertà che il movimento kurdo, sostenuto dalla
maggioranza della popolazione kurda, ha portato avanti in Turchia, più di 4mila
villaggi sono stati distrutti, dati alle fiamme, evacuati, costringendo 3
milioni di persone ad un esodo interno, che spesso finisce poi sulle navi
destinate a sbarcare in Europa e anche in Italia.
La
politica di negazione e di svuotamento del territorio che la Turchia e i suoi
dirigenti hanno portato avanti in questi anni, certo non si è affievolita con
delle riforme cosmetiche, né con le promesse di riforme e trasformazione in
vista del suo auspicato ingresso nell’UE.
Eppure,
non fanno più testo le prove delle torture subite, le dichiarazioni e
attestazioni di pericolo che presentiamo, uno dopo l’altro alla Commissione e
alle autorità competenti. La realtà dei fatti viene troppo spesso negata in
virtù di accordi politici che ormai sempre più ci colpiscono
indiscriminatamente, spingendoci così a trovare forme di denuncia più
incisive.
L’espulsione
che ci viene intimata all’atto del diniego dello status di rifugiato per noi
significa una nuova odissea, significa ricadere ancora in uno stato di
negazione, significa ancora una volta essere nessuno di fronte al mondo. Non
eravamo nessuno, dovevamo negare la nostra esistenza nel paese d’origine, che
non siamo nemmeno legittimati a chiamare con il proprio nome e con ogni nuovo
diniego che riceviamo, qui, in uno di quei paesi in cui la democrazia, i diritti
e le libertà tanto acclamate dovrebbero essere ben radicati, ci sentiamo tornare
in quella realtà da cui fuggiamo.
Aspettiamo
mesi e mesi prima di essere ascoltati da una Commissione che troppe volte ci
appare disattenta e frettolosa, senza avere modo di esprimere le nostre
preoccupazioni, senza che la tortura fisica e psicologica, che l’attesa ci
procura, venga in qualche modo presa in considerazione, soltanto per avere un
foglio in cui c’è scritto, in maniera sempre uguale e ripetitiva, che il
riconoscimento non è concesso perché l’attualità politica del paese da cui
scappiamo è
migliorata.
Noi kurdi non abbiamo ormai altra scelta che quella di protestare
anche nei confronti dell’Italia per le condizioni di negazione cui anch’essa ci
abbandona. Per questo, noi, una trentina di kurdi che hanno avuto il diniego
alla richiesta di riconoscimento di rifugiato avviamo uno sciopero della fame ad
oltranza a partire dal giorno 11 giugno 2003, dalle ore 10:00 di fronte alla
sede di Roma delle Nazioni Unite, in Piazzetta San Marco.
Vorremmo
richiamare l’attenzione di tutti gli individui, donne e uomini, ma anche delle
associazioni e organizzazioni che si battono per i diritti di quelli come noi,
sulla nuova drammatica realtà in cui siamo costretti a vivere, chiamandoli a
fare propria la nostra causa, per i diritti e la libertà del popolo kurdo, anche
in Italia.