Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè non si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur basilare ma entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di alcune scelte. Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga tutto il dibattito in corso come una rottura tra un partito ed il Movimento, anzichè un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra cosa!)
Infatti io sono convinto che quando si parla di violenza e di nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire cosa poi deriva da queste due modalità di comportamento. Allora, io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio delle considerazioni, che, da "ragazzo di paese" vi giro ed alle quali spero si cerchi di dare risposta.
Si cita spesso la resistenza italiana, ed io provenendo da una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa cosa, la resistenza italiana si costruì su un progetto politico trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che oggi è la nostra costituzione, sperimentata sul campo con "prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola per tutte, ed attraverso scontri ideologici anche aspri. I Resistenti addivennero alla republica, attraverso una guerra partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza non armata altrettanto pericolosa, per chi la fece, ed importante. Una resistenza fatta di persone disarmate che nascondevano, alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si opponevano come potevano perchè lo volevano.
La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali, ideologici,storici, politici, a disposizione del periodo; da quegli strumenti si produssero i mezzi per raggiungere un fine.
Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri fecere del loro meglio per costruire attraverso quei mezzi il fine, ma allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il "giusto fine " perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano a mio avviso i migliori di quel tempo.
Dico questo perchè se la nostra democrazia è imperfetta ed addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò derivi anche se non sopratutto dai fini usati per raggiungerla. Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti di ieri, maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur proseguendo su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi nuovi che partano anche dalle esperienze passate.
Non è vero che la scelta del meno peggio porta al giusto.
Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il ragionamento su violenza e nonviolenza? E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori come banditi, soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il linguaggio codificato diventa inevitabilmente simile, quello che noi dobbiamo obbligarci a fare è codificare un linguaggio nuovo che mandi in tilt " il Grande decodificatore".
Anche il ragionare sulla spirale "guerra- terrorismo" secondo me deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma anche ieri) la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine della seconda guerra mondiale, il 90% delle vittime durante le guerre sono civili, la guerra serve a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche, a schiacciare le società al volere dei "liberatori" che divengono i "ricostruttori di un nuovo ordine". Il terrorismo non istituzionale fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico istituzionale armato,producendo la stessa condizione politica e storica.
Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria, piuttosto che altri come atti resistenziali ( e può anche essere!) dobbiamo pensare che sono morti anche 8 civili irakeni( la nazionalità non è importante); come definiamo queste vittime? Effetti collaterali, errore umano, contingente necessità ? Se questo è "il nome" o qualifica che diamo a quelle vittime ci assumiamo lo stesso linguaggio e responsabilità di chi fa della guerra il proprio progetto politico e pur pensando di avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.
Se invece diamo "accezzioni" diverse ( quali?) alle stesse vittime civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il ragionamento su violenza e nonviolenza perchè da una "semplice qualifica" ne risulterà una progettualità diversa e molto articolata,che forse non sempre ci soddisferà.
Un abbraccio Walter Saresini
-----Messaggio originale----- Da: antonio bruno bruno@aleph.it A: fori-sociali@yahoogroups.com fori-sociali@yahoogroups.com Cc: aderentiretecontrog8@yahoogroups.com aderentiretecontrog8@yahoogroups.com; forumsociale-ponge@yahoogroups.com forumsociale-ponge@yahoogroups.com Data: sabato 17 gennaio 2004 8.48 Oggetto: [fori-sociali] violenza nonviolenza su liberazione
da liberazione
Ma il terrorismo isola chi lo fa e rende le masse spettatrici Sulle pratiche terroristiche non esprimo un giudizio etico: delle sue azioni ciascuno/a risponde alla sua coscienza e - se non se ne sottrae - alla legge positiva. Non esprimo nemmeno un giudizio assoluto. Si tratta di un fenomeno storico e per tale lo valuto. Se fu praticato dai Tartari mi interessa poco, dato che non fluisce più nella storia di oggi, praticato dai Narodnikj, i populisti russi, tra i quali vi era Leo Jogiches e la stessa Rosa, che se ne distaccarono (ma vi passarono, sia detto per scandalo delle anime belle). Mi interessa invece, perchè riguarda una persona della quale voglio rinnovare la memoria, non museale, ma attiva e viva.
Politicamente sul fenomeno terrorrismo nelle sue varianti storiche e geopolitiche dò un giudizio negativo: non tanto per la ferocia persino autodistruttiva o perchè ci vanno di mezzo innocenti (anche: ma questo è un giudizio generico che riguarda troppe cose per essere un fondamento saldo) ma perchè il suo scopo dichiarato o comunque il suo effetto non eludibile è che allontana le masse, le passivizza, le colloca in un limbo di inattività a fare da spettatrici. E per questo a me oggi pare sempre un fenomeno di destra per quanto rivoluzionaria possa essere la soggettività di chi lo pratica.
Chiamo dunque terrorismo una azione molto violenta contro persone agita individualmente o in un piccolo gruppo con una esposizione personale "eroica", che a me non piace mai: resto con Bert Brecht: "Beato il popolo che non ha bisogno di eroi".
Non è invece terrorismo la resistenza anche armata o la guerriglia, che ha una organizzazione e ha bisogno dell'appoggio popolare come del pane. Ricordiamo il motto di Ho Chi Minh che il partigiano è come un pesce nell'acqua e l'acqua è appunto il favore popolare che deve assolutamente conquistare e mantenere. La resistenza anche armata è legittima dal punto di vista del diritto internazionale per qualsiasi popolo occupato e da lì non mi muovo: il popolo iraqeno invaso e occupato ha il diritto di lottare contro gli occupanti e delle morti che ne seguono rispondono quelli che hanno mandato soldati ad occupare, vergognosamente: oggi i carabinieri uccisi a Nassiriya servono per consentire a imprese italiane di lucrare sulla "ricostruzione" dell'Iraq. Davvero assassini, come dissi a Parigi dando la notizia durante il Forum delle Donne. Non sollevo dunque nessun rilievo critico sulla legittimità della guerriglia o della resistenza armata iraqena: se interpellata tuttavia non giudicherei allo stesso modo qualsiasi gruppo resistenziale: a me che vincano i sunniti o gli sciiti, come in Egitto magari i fondamentalisti islamici, come in Iran vinsero gli Imam, davvero non piace: so bene che qualsiasi dittatura è esecrabile, ma comunque le dittature religiose sono -almeno per le donne - peggio ancora di quelle laiche: per dirlo con esempi chiari, le donne Afgane stavano meglio con Najibullah che con i Talebani o con il governo di destra di oggi; le donne pakistane poco giovamento hanno dal fatto che il loro governo appoggi e sia appoggiato dalla "democrazia occidentale". In Iraq certo le donne avevano più agibilità con Saddam di quanta ne avrebbero in una democrazia teocratica. Sarebbe come aver accettato durante la Resistenza che il fascismo cadesse per far posto allo stato pontificio o alla monarchia rafforzata e per restaurare lo Statuto albertino invece di fare la Costituzione.
Interpellata, in più direi come scelta e indicazione personale che preferisco boicottaggi e sabotaggi, pozzi incendiati e binari fatti saltare che attentati a persone, mine sulle strade ecc.. E qui voglio ricordare che l'azione nonviolenta non è affatto necessariamente legale o remissiva e comprende appunto sabotaggi boicottaggi attentati a cose.
A me sembra che sia un atteggiamento conservatore quello di chi si appella al passato prossimo non per dare uno spessore storico al suo cammino in avanti, ma per avere un esempio rassicurante e agire una sorta di coazione a ripetere. Conviene anche ricordare che le pur gloriose e legittime guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni (Vietnam) o alla tirannia interna (Nigaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e inamovibili o addirittura l'andata al potere di governi di destra. Conviene fare uno sforzo di creatività e trovare nuove strade: una scelta di azione collettiva nonviolenta del tutto interna alla storia del movimento operaio e sindacale e a quello delle donne a me pare interessante.
Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene immesso nelle lotte degli autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un po' fuori tempo massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno caldo. Si può altrimenti diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non vedono la differenza tra mercato e servizi e non si danno da fare per un pieno coinvolgimento dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro lotta, ma con propria presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro la riforma Moratti, insieme a genitori e associazioni) rischiano l'isolamento e la ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per loro i servizi sono un pezzo del mercato.
LIDIA MENAPACE ---------------- Insurrezione, resistenza, insubordinazione, disobbedienza... Diversamente da quanto espresso ieri da Cannavò e altri compagni non credo affatto che l'intervento di Bertinotti abbia alimentato alcunché di ambiguo o peggio di negativo. Prosegue semmai un dibattito di lungo periodo rialimentatosi nel movimento dopo i fatti di Genova 2001.
Sono tra quelli che, in quel frangente, respinse l'idea che di fronte ad un ordine pubblico palesemente uscito dai cardini, fino all'omicidio, servissero servizi d'ordine, e non, piuttosto, forme estese e condivise di autotutela personale e collettiva. Tra quelli che all'indomani della manifestazione del 4 ottobre scorso ha espresso contrarietà evidente sulla conduzione di quella manifestazione e gli effetti sul movimento. Non oggi discutiamo dunque sull'onda di una palese operazione politico-giudiziaria ma riprendiamo il filo di un ragionamento mai realmente interrotto.
La disobbedienza come processo sociale dimostra una straordinaria estensione: è entrata nel vocabolario materiale di larghi settori sociali, nelle lotte di Basilicata contro le scorie nucleari, in quelle degli autoferrotranviari, nelle mobilitazioni per il diritto all'abitare o allo studio. Un grande, immaginario, luogo comune nel quale la tradizione non violenta, quella di Capitini, si confronta con altre pratiche, tra le quali quelle comuniste ed eterodosse di molti di noi. Ne sta emergendo un linguaggio che declina la non violenza in una forma nuova e diversa da ciascuna di esse, fortemente attualizzata. Del che sembra non rendersi conto anche quella parte del movimento che attribuisce a pratiche nuove significati antichi, prigioniero di gabbie semantiche e politiche. Errore, questo sì, che cristallizza e paralizza l'azione.
D'altro canto se il reciproco riflettersi di guerra e terrorismo va rotto in qualche punto è all'interno di questa novità che il cuneo va cercato e non certo in una disputa geometrica sulle forme di questa relazione. Questo è anche il luogo nel quale si concretizza l'obiezione e la diserzione alla guerra, in cui disobbedienza e boicottaggio acquisiscono legittimità sociale.
Non ho dubbi che l'ondata di movimenti globali sviluppatasi dal 1999 in avanti ha portato con se l'eredità del passato e che riaffiorino i felici detriti di un conflitto irrisolto. Che proprio la guerra, nelle sue varie declinazioni, terrorismo compreso, ci ponga di fronte in modo più stringente ad una necessaria e radicale trasformazione dell'esistente, quasi ad uno stato di necessità, entro un modello di sviluppo, che per convenzione chiamiamo neoliberista, percepito come socialmente e ambientalmente intollerabile. Che riemerga un problema di legittimità delle forme di lotta che si intreccia ad uno "ius resitentiae" che permea la nostra cittadinanza.
Dalla dichiarazione giacobina del 1793 «di fronte all'ingiustizia e all'oppressione l'insurrezione è il più sacro dei diritti dei cittadini», attraverso l'irredentismo italiano, l'articolo di Dossetti in sede costituente, «la resistenza individuale e collettiva è diritto e dovere di ogni cittadino», lungo la guerra d'Algeria e l'insubordinazione dei 120 intellettuali francesi, attraverso la disobbedienza civile del movimento Usa per i diritti civili, e via di questo passo, fino allo zapatismo, c'è un filo piuttosto visibile che arriva fino a noi.
Ma è un sentiero che si modifica nel tempo, dall'insurrezione al diritto di resistenza, all'insubordinazione, alla disobbedienza in un percorso forzoso che mi piace pensare corrisponda ad un estendersi, un socializzarsi.
Che ci consente di parlare di non violenza con piena libertà, fuori da categorie immutabili e da una ricerca spasmodica di coerenza tra mezzi e fini dell'agire politico. Che non ci impedisce di leggere la violenza dei rapporti di dominio imperanti ma senza rimandare ad un lontano futuro la radicale rottura con essi, il posizionarsi da subito alle soglie del mondo migliore possibile.
E' dibattito insomma che fuoriusciti dal travisamento del giornalismo interessato ( "Il Corriere della Sera" di "Casco sì, no, forse") può portare lontano.
Daniele Farina
-------------------------------
"Eppure il vento soffia ancora...." -----------------------
antonio bruno
339 3442011 ----------------- visitate il sito del Comitato Verita' e Giustizia per Genova www.veritagiustizia.it --------------------- aderiste alla mailing list AMBIENTE LIGURIA mandando un messaggio vuoto a
ambiente_liguria-subscribe@yahoogroups.com
Moderiamoci: no reply alla lista, messaggi personali alle persone, no flames. Gli attachment sono stati disabilitati. Tutti possono iscriversi e intervenire nella mailing list. Puo' essere utile che chi scrive segnali a quale forum locale sta partecipando. Per annullare l'iscrizione a questo gruppo, manda una mail all'indirizzo: fori-sociali-unsubscribe@yahoogroups.com
L'utilizzo, da parte tua, di Yahoo! Gruppi è soggetto alle http://it.docs.yahoo.com/info/utos.html
Caro Walter Seresini, Trovo il tuo messaggio intrigante, poiche' provengo anch'io da una famiglia resistente (di quelle non armate) e cosi' mi e' venuto voglia di inserire qualche commento nel tuo testo, chissa' che non si riesca a costruire un discorso.
At 15:12 +0100 18-01-2004, Walter, Federica wrote:
Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè non si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur basilare ma entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di alcune scelte. Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga tutto il dibattito in corso come una rottura tra un partito ed il Movimento, anzichè un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra cosa!)
Infatti io sono convinto che quando si parla di violenza e di nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire cosa poi deriva da queste due modalità di comportamento. Allora, io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio delle considerazioni, che, da "ragazzo di paese" vi giro ed alle quali spero si cerchi di dare risposta.
Si cita spesso la resistenza italiana, ed io provenendo da una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa cosa, la resistenza italiana si costruì su un progetto politico trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che oggi è la nostra costituzione, sperimentata sul campo con "prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola per tutte, ed attraverso scontri ideologici anche aspri. I Resistenti addivennero alla republica, attraverso una guerra partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza non armata altrettanto pericolosa, per chi la fece, ed importante. Una resistenza fatta di persone disarmate che nascondevano, alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si opponevano come potevano perchè lo volevano.
La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali, ideologici, storici, politici, a disposizione del periodo; da quegli strumenti si produssero i mezzi per raggiungere un fine.
Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri fecere del loro meglio per costruire attraverso quei mezzi il fine, ma allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il "giusto fine " perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano a mio avviso i migliori di quel tempo.
"Il fine"... intendi l'attuale ordinamento della Repubblica Italiana? Io non lo vedrei come un fine, che mi suona statico, ma come un divenire, una specie di corsa a staffetta senza fine dove ciascuna generazione consegna il testimone a quella successiva. Per cui, se ad un certo punto della corsa, diciamo oggi, il "giusto fine" non e' poi abbastanza "giusto", non sarebbe da guardare ai padri che hanno ormai fatto la loro parte il meglio che hanno potuto, ma a noi stessi che siamo in corsa oggi, per vedere cosa si puo' fare per migliorare il sistema che non ci piace. Ricordo a questo proposito che un sistema, in quanto problema, non si puo' risolvere usando gli strumenti logici che l'ha costruito, (ha detto Einstein, che di problemi se ne intendeva.)
Dico questo perchè se la nostra democrazia è imperfetta ed addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò derivi anche se non sopratutto dai fini usati per raggiungerla.
E non credi invece, che cio' derivi dagli uomini che vi fanno parte? Se pensiamo che autorita' e sottomissione, variamente distribuiti, sono elementi importanti del carattere di una persona, io non andrei a cercare tanto indietro nel tempo per trovare le cause che rendono imperfetta una democrazia.
Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti di ieri, maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur proseguendo su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi nuovi che partano anche dalle esperienze passate.
Non è vero che la scelta del meno peggio porta al giusto.
Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il ragionamento su violenza e nonviolenza? E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori come banditi, soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il linguaggio codificato diventa inevitabilmente simile, quello che noi dobbiamo obbligarci a fare è codificare un linguaggio nuovo che mandi in tilt " il Grande decodificatore".
Buon punto. Hai qualche proposta ? (io ne ho).
Anche il ragionare sulla spirale "guerra- terrorismo" secondo me deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma anche ieri) la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine della seconda guerra mondiale, il 90% delle vittime durante le guerre sono civili, la guerra serve a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche, a schiacciare le società al volere dei "liberatori" che divengono i "ricostruttori di un nuovo ordine". Il terrorismo non istituzionale fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico istituzionale armato, producendo la stessa condizione politica e storica.
(Questo pero' mi sembra il linguaggio tradizionale, non "nuovo")
Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria, piuttosto che altri come atti resistenziali ( e può anche essere!) dobbiamo pensare che sono morti anche 8 civili irakeni ( la nazionalità non è importante); come definiamo queste vittime? Effetti collaterali, errore umano, contingente necessità ? Se questo è "il nome" o qualifica che diamo a quelle vittime ci assumiamo lo stesso linguaggio e responsabilità di chi fa della guerra il proprio progetto politico e pur pensando di avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.
Se invece diamo "accezzioni" diverse ( quali?) alle stesse vittime civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il ragionamento su violenza e nonviolenza perchè da una "semplice qualifica" ne risulterà una progettualità diversa e molto articolata,che forse non sempre ci soddisferà.
Un abbraccio Walter Saresini
Qui un po' mi perdo. Per me la faccenda di Nassyria e' un errore da non prendere in considerazione come modello di codificazione, perche' non fa testo. L'errore, mi spiego, e' l'essere andati in guerra. Dopo, una volta andati, cosa resta da codificare ? E' tardi.
Ed e' tardi anche per me, e' mezzanotte e me ne vado a letto, perche' domani ho da lavorare: ho da fare resistenza...
ciao, antonio
Mi permetto di segnalare l'articolo di Marco Revelli " Il nostro dopoguerra" apparso sul manifesto di sabato 18 Gennaio, come spunto per ulteriori ragionamenti in merito a questo dibattito. Agostino
----- Original Message ----- From: "Walter, Federica" walter.federica@tiscalinet.it To: "bastaguerra" bastaguerra@yahoogroups.com; "BSF" bsf@bresciasocialforum.org; fori-sociali@yahoogroups.com Cc: aderentiretecontrog8@yahoogroups.com; forumsociale-ponge@yahoogroups.com Sent: Sunday, January 18, 2004 3:12 PM Subject: [Bsf] R: [fori-sociali] violenza nonviolenza su liberazione
Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè non si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur basilare ma entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di alcune scelte. Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga tutto il dibattito in corso come una rottura tra un partito ed il Movimento, anzichè un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra cosa!)
Infatti io sono convinto che quando si parla di violenza e di nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire cosa poi deriva da queste due modalità di comportamento. Allora, io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio delle considerazioni, che, da "ragazzo di paese" vi
giro
ed alle quali spero si cerchi di dare risposta.
Si cita spesso la resistenza italiana, ed io provenendo da una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa cosa, la resistenza italiana si costruì su un progetto politico trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che oggi è la nostra costituzione, sperimentata sul campo con "prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola per tutte, ed attraverso scontri ideologici anche aspri. I Resistenti addivennero alla republica, attraverso una guerra partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza non armata altrettanto
pericolosa,
per chi la fece, ed importante. Una resistenza fatta di persone disarmate che nascondevano, alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si opponevano come potevano perchè lo volevano.
La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali, ideologici,storici, politici, a disposizione del periodo; da quegli strumenti si produssero i mezzi per raggiungere un fine.
Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri fecere del loro meglio
per
costruire attraverso quei mezzi il fine, ma allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il "giusto fine " perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano a mio avviso i migliori di quel tempo.
Dico questo perchè se la nostra democrazia è imperfetta ed addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò derivi anche se non sopratutto dai
fini
usati per raggiungerla. Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti di ieri, maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur proseguendo su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi nuovi che partano anche dalle
esperienze
passate.
Non è vero che la scelta del meno peggio porta al giusto.
Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il ragionamento su violenza e nonviolenza? E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori come banditi, soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il linguaggio codificato diventa inevitabilmente simile, quello che noi dobbiamo obbligarci a fare
è
codificare un linguaggio nuovo che mandi in tilt " il Grande decodificatore".
Anche il ragionare sulla spirale "guerra- terrorismo" secondo me deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma anche ieri) la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine della seconda guerra
mondiale,
il 90% delle vittime durante le guerre sono civili, la guerra serve a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche, a schiacciare le società al volere dei "liberatori" che divengono i "ricostruttori di un nuovo ordine". Il terrorismo non istituzionale fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico istituzionale armato,producendo la stessa condizione politica e storica.
Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria, piuttosto che altri come atti resistenziali ( e può anche essere!) dobbiamo pensare che sono morti anche
8
civili irakeni( la nazionalità non è importante); come definiamo queste vittime? Effetti collaterali, errore umano, contingente necessità ? Se questo è "il nome" o qualifica che diamo a quelle vittime ci assumiamo
lo
stesso linguaggio e responsabilità di chi fa della guerra il proprio progetto politico e pur pensando di avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.
Se invece diamo "accezzioni" diverse ( quali?) alle stesse vittime civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il ragionamento su violenza e nonviolenza perchè da una "semplice qualifica" ne risulterà una progettualità diversa e molto articolata,che forse non sempre ci
soddisferà.
Un abbraccio Walter Saresini
-----Messaggio originale----- Da: antonio bruno bruno@aleph.it A: fori-sociali@yahoogroups.com fori-sociali@yahoogroups.com Cc: aderentiretecontrog8@yahoogroups.com aderentiretecontrog8@yahoogroups.com; forumsociale-ponge@yahoogroups.com forumsociale-ponge@yahoogroups.com Data: sabato 17 gennaio 2004 8.48 Oggetto: [fori-sociali] violenza nonviolenza su liberazione
da liberazione
Ma il terrorismo isola chi lo fa e rende le masse spettatrici Sulle pratiche terroristiche non esprimo un giudizio etico: delle sue azioni ciascuno/a risponde alla sua coscienza e - se non se ne sottrae - alla legge positiva. Non esprimo nemmeno un giudizio assoluto. Si tratta
di
un fenomeno storico e per tale lo valuto. Se fu praticato dai Tartari mi interessa poco, dato che non fluisce più nella storia di oggi, praticato dai Narodnikj, i populisti russi, tra i quali vi era Leo Jogiches e la stessa Rosa, che se ne distaccarono (ma vi passarono, sia detto per scandalo delle anime belle). Mi interessa invece, perchè riguarda una persona della quale voglio rinnovare la memoria, non museale, ma attiva e viva.
Politicamente sul fenomeno terrorrismo nelle sue varianti storiche e geopolitiche dò un giudizio negativo: non tanto per la ferocia persino autodistruttiva o perchè ci vanno di mezzo innocenti (anche: ma questo è
un
giudizio generico che riguarda troppe cose per essere un fondamento saldo) ma perchè il suo scopo dichiarato o comunque il suo effetto non eludibile
è
che allontana le masse, le passivizza, le colloca in un limbo di
inattività
a fare da spettatrici. E per questo a me oggi pare sempre un fenomeno di destra per quanto rivoluzionaria possa essere la soggettività di chi lo pratica.
Chiamo dunque terrorismo una azione molto violenta contro persone agita individualmente o in un piccolo gruppo con una esposizione personale "eroica", che a me non piace mai: resto con Bert Brecht: "Beato il popolo che non ha bisogno di eroi".
Non è invece terrorismo la resistenza anche armata o la guerriglia, che ha una organizzazione e ha bisogno dell'appoggio popolare come del pane. Ricordiamo il motto di Ho Chi Minh che il partigiano è come un pesce nell'acqua e l'acqua è appunto il favore popolare che deve assolutamente conquistare e mantenere. La resistenza anche armata è legittima dal punto di vista del diritto internazionale per qualsiasi popolo occupato e da lì non mi muovo: il popolo iraqeno invaso e occupato ha il diritto di lottare contro gli occupanti e delle morti che ne seguono rispondono quelli che hanno mandato soldati ad occupare, vergognosamente: oggi i carabinieri uccisi a Nassiriya servono per consentire a imprese italiane di lucrare sulla "ricostruzione" dell'Iraq. Davvero assassini, come dissi a Parigi dando la notizia durante il Forum delle Donne. Non sollevo dunque nessun rilievo critico sulla legittimità della guerriglia o della resistenza armata iraqena: se interpellata tuttavia non giudicherei allo stesso modo qualsiasi gruppo resistenziale: a me che vincano i sunniti o gli sciiti, come in Egitto magari i fondamentalisti islamici, come in Iran vinsero gli Imam, davvero non piace: so bene che qualsiasi dittatura è esecrabile, ma comunque le dittature religiose sono -almeno per le donne - peggio ancora di quelle laiche: per dirlo con esempi chiari, le donne Afgane stavano meglio con Najibullah che con i Talebani o con il governo di destra di oggi; le donne pakistane poco giovamento hanno dal fatto che il loro governo appoggi e sia appoggiato dalla "democrazia occidentale". In Iraq certo le donne avevano più agibilità con Saddam di quanta ne avrebbero in una democrazia teocratica. Sarebbe come aver accettato durante la Resistenza che il fascismo cadesse per far posto allo stato pontificio o alla monarchia rafforzata e per restaurare lo Statuto albertino invece di fare la Costituzione.
Interpellata, in più direi come scelta e indicazione personale che preferisco boicottaggi e sabotaggi, pozzi incendiati e binari fatti
saltare
che attentati a persone, mine sulle strade ecc.. E qui voglio ricordare
che
l'azione nonviolenta non è affatto necessariamente legale o remissiva e comprende appunto sabotaggi boicottaggi attentati a cose.
A me sembra che sia un atteggiamento conservatore quello di chi si appella al passato prossimo non per dare uno spessore storico al suo cammino in avanti, ma per avere un esempio rassicurante e agire una sorta di coazione a ripetere. Conviene anche ricordare che le pur gloriose e legittime guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni (Vietnam) o alla tirannia interna (Nigaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e inamovibili o addirittura l'andata al potere di governi di destra.
Conviene
fare uno sforzo di creatività e trovare nuove strade: una scelta di azione collettiva nonviolenta del tutto interna alla storia del movimento operaio e sindacale e a quello delle donne a me pare interessante.
Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene immesso nelle lotte degli autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un po' fuori tempo massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno caldo. Si può
altrimenti
diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non vedono la differenza tra mercato e servizi e non si danno da fare per un pieno coinvolgimento dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro lotta, ma con propria presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro la riforma Moratti, insieme a genitori e associazioni) rischiano l'isolamento e la ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per loro i servizi sono un pezzo del mercato.
LIDIA MENAPACE
Insurrezione, resistenza, insubordinazione, disobbedienza... Diversamente da quanto espresso ieri da Cannavò e altri compagni non credo affatto che l'intervento di Bertinotti abbia alimentato alcunché di
ambiguo
o peggio di negativo. Prosegue semmai un dibattito di lungo periodo rialimentatosi nel movimento dopo i fatti di Genova 2001.
Sono tra quelli che, in quel frangente, respinse l'idea che di fronte ad
un
ordine pubblico palesemente uscito dai cardini, fino all'omicidio, servissero servizi d'ordine, e non, piuttosto, forme estese e condivise di autotutela personale e collettiva. Tra quelli che all'indomani della manifestazione del 4 ottobre scorso ha espresso contrarietà evidente sulla conduzione di quella manifestazione e gli effetti sul movimento. Non oggi discutiamo dunque sull'onda di una palese operazione politico-giudiziaria ma riprendiamo il filo di un ragionamento mai realmente interrotto.
La disobbedienza come processo sociale dimostra una straordinaria estensione: è entrata nel vocabolario materiale di larghi settori sociali, nelle lotte di Basilicata contro le scorie nucleari, in quelle degli autoferrotranviari, nelle mobilitazioni per il diritto all'abitare o allo studio. Un grande, immaginario, luogo comune nel quale la tradizione non violenta, quella di Capitini, si confronta con altre pratiche, tra le
quali
quelle comuniste ed eterodosse di molti di noi. Ne sta emergendo un linguaggio che declina la non violenza in una forma nuova e diversa da ciascuna di esse, fortemente attualizzata. Del che sembra non rendersi conto anche quella parte del movimento che attribuisce a pratiche nuove significati antichi, prigioniero di gabbie semantiche e politiche. Errore, questo sì, che cristallizza e paralizza l'azione.
D'altro canto se il reciproco riflettersi di guerra e terrorismo va rotto in qualche punto è all'interno di questa novità che il cuneo va cercato e non certo in una disputa geometrica sulle forme di questa relazione.
Questo
è anche il luogo nel quale si concretizza l'obiezione e la diserzione alla guerra, in cui disobbedienza e boicottaggio acquisiscono legittimità sociale.
Non ho dubbi che l'ondata di movimenti globali sviluppatasi dal 1999 in avanti ha portato con se l'eredità del passato e che riaffiorino i felici detriti di un conflitto irrisolto. Che proprio la guerra, nelle sue varie declinazioni, terrorismo compreso, ci ponga di fronte in modo più stringente ad una necessaria e radicale trasformazione dell'esistente, quasi ad uno stato di necessità, entro un modello di sviluppo, che per convenzione chiamiamo neoliberista, percepito come socialmente e ambientalmente intollerabile. Che riemerga un problema di legittimità
delle
forme di lotta che si intreccia ad uno "ius resitentiae" che permea la nostra cittadinanza.
Dalla dichiarazione giacobina del 1793 «di fronte all'ingiustizia e all'oppressione l'insurrezione è il più sacro dei diritti dei cittadini», attraverso l'irredentismo italiano, l'articolo di Dossetti in sede costituente, «la resistenza individuale e collettiva. è diritto e dovere
di
ogni cittadino», lungo la guerra d'Algeria e l'insubordinazione dei 120 intellettuali francesi, attraverso la disobbedienza civile del movimento Usa per i diritti civili, e via di questo passo, fino allo zapatismo, c'è un filo piuttosto visibile che arriva fino a noi.
Ma è un sentiero che si modifica nel tempo, dall'insurrezione al diritto
di
resistenza, all'insubordinazione, alla disobbedienza in un percorso
forzoso
che mi piace pensare corrisponda ad un estendersi, un socializzarsi.
Che ci consente di parlare di non violenza con piena libertà, fuori da categorie immutabili e da una ricerca spasmodica di coerenza tra mezzi e fini dell'agire politico. Che non ci impedisce di leggere la violenza dei rapporti di dominio imperanti ma senza rimandare ad un lontano futuro la radicale rottura con essi, il posizionarsi da subito alle soglie del mondo migliore possibile.
E' dibattito insomma che fuoriusciti dal travisamento del giornalismo interessato ( "Il Corriere della Sera" di "Casco sì, no, forse") può portare lontano.
Daniele Farina
"Eppure il vento soffia ancora...."
antonio bruno
339 3442011
visitate il sito del Comitato Verita' e Giustizia per Genova www.veritagiustizia.it
aderiste alla mailing list AMBIENTE LIGURIA mandando un messaggio vuoto a
ambiente_liguria-subscribe@yahoogroups.com
Moderiamoci: no reply alla lista, messaggi personali alle persone, no flames. Gli attachment sono stati disabilitati. Tutti possono iscriversi e intervenire nella mailing list. Puo' essere utile che chi scrive segnali a quale forum locale sta partecipando. Per annullare l'iscrizione a questo gruppo, manda una mail all'indirizzo: fori-sociali-unsubscribe@yahoogroups.com
L'utilizzo, da parte tua, di Yahoo! Gruppi è soggetto alle http://it.docs.yahoo.com/info/utos.html
Bsf mailing list