Inoltro per conoscenza. Ciao Margherita ----- Original Message ----- From: "GRANDEnud" grandenud@tin.it Sent: Monday, November 17, 2003 11:41 PM Subject: [fori-sociali] TUTTI A CASA
Da: il "Giornale dei carabinieri" Sono stati uccisi per la guerra di Bush. Ora basta - "Potremmo anche
perdere" Parola della Cia - Le resistenze in Iraq
Sono stati uccisi per la guerra di Bush. Ora basta
Nelle caserme dell'Arma non solo si è pianto di dolore e di
commozione, ma anche di rabbia perché non si doveva aspettare la
strage, non bisognava mandare i carabinieri in Iraq per partecipare a
una guerra americana. Il comando generale dei carabinieri ha fatto
sapere che sono arrivate migliaia di attestazioni di solidarietà, ma
Il Giornale dei carabinieri, letto da trentamila carabinieri, ha
espresso anche il sentimento di angoscia per un sacrificio imposto da
una guerra insensata.
Dice l'editoriale firmato dal maresciallo Ernesto Pallotta: "Non
dovevamo aspettare i morti per meditare sull'impegno italiano in
Iraq. Contrariamente a quanto affermato da Bush, i fatti dimostrano
che in Iraq vi è ancora la guerra. L'Italia non ha avuto un mandato
parlamentare per partecipare a un conflitto armato. Di fronte ai
morti diciamo basta e l'Italia deve allinearsi ai comportamenti
assunti dalla maggior parte dei Paesi europei".
C'è anche una dichiarazione del maresciallo Formiga, segretario
generale del sindacato carabinieri in congedo: "Ci chiediamo con
dolore perché i carabinieri devono morire per terrorismo all'estero.
Chiediamo con forza che il nostro contingente torni in patria".
L'hanno chiamata missione "antica Babilonia", ci partecipano tremila
militari italiani, quattrocento sono carabinieri: operano nell'Iraq
meridionale sotto comando britannico. Il loro principale compito
definito "umanitario" è quello di "concorrere al mantenimento
all'ordine pubblico". In un Paese occupato militarmente significa far
rispettare le regole imposte dagli occupanti. Sono passati 24 giorni
tra le minacce contro l'Italia e l'attentato che ha fatto strage di
carabinieri, soldati e civili irakeni nelle palazzine del comando
militare italiano a Nassiriya. Il messaggio di Al Qaeda trasmesso il
18 ottobre dalla tv del Qatar diceva: "Ci riserviamo il diritto di
rappresaglia, al momento giusto e nel posto giusto contro tutti i
Paesi che prendono parte a questa guerra iniqua, vale a dire Gran
Bretagna, Spagna, Australia, Polonia, Giappone e Italia". Lo sceicco
Omar Bakri, vicino alle posizioni di Al Qaeda, aveva avvertito gli
europei che le minacce andavano prese sul serio. Come sempre la
strategia terroristica ha messo in atto la sua devastante potenza nel
luogo più vulnerabile, una città dove i militari italiani si
sentivano protetti per aver fraternizzato con la popolazione, dove le
strutture militari erano difese solo da sacchi di sabbia, dove non
c'erano segnali allarmanti di guerriglia. Dopo le minacce, i vertici
della Difesa avevano rafforzato la presenza del Sismi, il servizio
segreto militare, sulla cui capacità di penetrazione tra i gruppi
della guerriglia, erano fondate le speranze di poter evitare
un'azione contro l'Italia. Gli agenti segreti avrebbero dovuto
cercare contatti con le formazioni guerrigliere che avevano più peso
nel controllo del territorio di Nasseriya: bisognava convincerle che
i nostri soldati svolgevano solo compiti umanitari e offrire loro dei
vantaggi se non li avessero considerati nemici.
Missione difficile, al confine con l'irrealtà. Per questa è fallita.
Dopo la strage il Sismi ha catapultato in Iraq altri agenti segreti
per capire le ragioni del fallimento. "Scopriamo ora - dice Luigi
Bonanate, docente di studi strategici all'Università di Torino - che
in Iraq c'è una guerra a cui una parte sta reagendo con una guerra di
guerriglia. Quando si è deciso di mandare "i nostri ragazzi" in Iraq
si è usata la coloritura di dire che andavano per motivi umanitari e
non come alleati degli Stati Uniti. E oggi ne piangiamo le
conseguenze. Quei militari morti sono vittime del lavoro mandate in
un cantiere malsano, come l'immigrato albanese morto nel malsano
cantiere di Genova. Sono la tristissima testimonianza che non era
vero, come hanno cercato di farci credere, che tutta la popolazione
irakena era contro Saddam, che bastava rovesciare la statua del
dittatore, per fare accettare l'intervento militare straniero. Il
futuro dell'Iraq è nero, nero, nero. E' possibile che gli attentati
continuino a colpire obiettivi situati prevalentemente nel territorio
irakeno, perché le formazioni della guerriglia la ritengono una
guerra di liberazione. Ma se non si rimuovono le ragioni della
guerra, c'è il rischio che gli attentati siano esportati in altri
scenari, come Europa o Stati Uniti, per coinvolgere ancora più
profondamente l'opinione pubblica internazionale".
La possibilità che le minacce siano seguite anche da azioni
terroristiche nei Paesi occidentali è stata subito presa in
considerazione dai nostri organismi di sicurezza. Il Ministro Pisanu
ha convocato i vertici dell'antiterrorismo per studiare nuove misure
di protezione per gli obiettivi più sensibili: saranno intensificati
i servizi di vigilanza oltre che per gli aeroporti, le stazioni, le
ambasciate anche per le strutture militari.
Annibale Paloscia
Un rapporto dei servizi segreti avverte la Casa Bianca che la
situazione irachena potrebbe peggiorare "Potremmo anche perdere". Parola della Cia
Nel giorno più nero della guerra irachena, arriva un colpo
inaspettato anche dalla Cia. Le indiscrezioni tratte dal rapporto
commissionato direttamente dal grande capo, George Tenet, sono state
diffuse dal Philadelphia Inquirer con un tempismo che ha insospettito
gli analisti politici. Secondo questi ultimi la Cia avrebbe voluto
fare un regalo al proconsole dell'Iraq, Paul Bremer, fornendogli un
mezzo per scavalcare i suoi diretti superiori al Pentagono e fare
arrivare il messaggio direttamente nell'Ufficio ovale: le cose vanno
male, e sono destinate a peggiorare. Un dossier al momento giusto.
Non è la prima volta che la Cia contrappone alla propaganda dei neo- conservatori un'immagine più realistica della guerra ma non aveva mai
descritto così chiaramente una "resistenza estesa, forte e destinata
a diventarlo sempre di più". Il rapporto parla di circa 50mila
insorti che attirano sempre più adepti man mano che le condizioni
della vita quotidiana peggiorano. E "non si tratta soltanto di un
pugno di baatisti (i membri del partito-stato di Saddam), sono
migliaia di persone che aumentano ogni giorno. Non sparano tutti ma
forniscono supporto, rifugio e sostegno". Una prova evidente è il
fatto che gli attacchi si stanno diffondendo per tutto il territorio,
ben oltre il "Triangolo sunnita" - fra Baghdad, Tikrit e Ramadi -
descritto dai media come il rifugio dei nostalgici.
"Siamo destinati" continua la Cia "a perdere totalmente il controllo
della situazione se non cambiamo rapidamente e radicalmente la
situazione". Ma si tratta di un cambiamento che non può avvenire
soltanto sul piano militare visto che ogni escalation da parte delle
truppe di occupazione, oltre a dimostrare agli occhi del mondo che la
guerra è tutt'altro che finita, innesca ulteriori motivi di
risentimento. Per questo motivo l'amministrazione di Bremer non vede
affatto bene la decisione dell'esercito di aumentare la pressione
offensiva contro i ribelli con bombardamenti e raid pesanti. D'altro
canto restarsene barricati nei propri fortini, come stanno facendo
gli americani, non consente di mettere in moto il processo di
ricostruzione che, quello sì, potrebbe ottenere il sostegno di una
parte della popolazione.
L'altra nota dolente è quella finanziaria. Gli attacchi agli
oleodotti raggiungono raramente i telegiornali occidentali ma sono
efficaci e quotidiani, e hanno di fatto polverizzato una delle belle
pensate dei neo-conservatori: pagare la guerra col petrolio iracheno.
Secondo i piani di Washington entro qualche settimana dalla fine
della guerra i pozzi iracheni avrebbero dovuto ricominciare a pompare
a pieno ritmo, ovvero tirare fuori i 2,5 milioni di barili al giorno
dell'ante-guerra. Ma, vista totale incapacità della coalizione di
proteggere gli oleodotti che attraversano il paese, siamo ben lontani
dall'obiettivo.
Le resistenze in Iraq
L'Iraq è noto, è un paese diviso. Furono gli inglesi a tracciare i
confini di uno stato virtuale, nel 1920, e furono loro i primi a
bombardare i curdi, i sunniti e gli sciiti che non si piegavano.
L'invasione americana sta riuscendo oggi dove perfino il pugno di
ferro di Saddam aveva fallito, ricomponendo differenze etniche,
politiche e religiose, in nome della cacciata dell'invasore. La
resistenza è infatti composta di molte anime, ben diverse fra loro.
La più agguerrita e sicuramente la meglio armata, perché ha accesso
ai depositi nascosti da Saddam per l'Iraq, è quella composta dagli ex
del formidabile apparato di sicurezza interno, cui si sono aggiunti i
disoccupati dell'esercito vero e proprio smantellato dagli americani.
Si è trattato di un errore strategico che non ha precedenti nella
storia. A nessuno, infatti, era mai venuto in mente di dire a
centinaia di migliaia di uomini di andarsene semplicemente a casa,
lasciandogli le armi e smettendo di pagargli lo stipendio.
Mentre nel Kurdistan iracheno vige una calma armata, nel nord
dell'Iraq elementi tribali locali coltivano il sogno di un'isola
sunnita - minoranza da sempre dominante - che non debba scendere a
compromessi con le altre componenti. La latitanza degli americani
alimenta l'illusione e rafforza gli organismi tribali visto che li
costringe a difendersi da sé in un paese nel quale, non bisogna
dimenticarlo, poco prima di capitolare Saddam ha aperto le prigioni
liberando circa centomila criminali condannati.
Nel sud sciita l'obiettivo di fondare una Repubblica islamica sul
modello dell'Iran spinge alla resistenza armata. Anche qui le truppe
della coalizione non controllano affatto il territorio: la relativa
fortuna - fino a ieri - dei polacchi e degli italiani si doveva alla
scelta di lasciar governare dalle autorità religiose o tribali città
importanti come Najaf, Karbala e Bassora.
Che dire di Al Qaeda? Bisogna sottolineare che prima dell'attacco
americano la rete di Bin Laden e l'Iraq non avevano niente a che
spartire mentre adesso, dopo l'invasione, il paese è diventato un
luogo di attrazione per chiunque voglia "uccidere un infedele".
Tuttavia le orde di discepoli di Osama previste dal Pentagono non si
sono viste. Il motivo è molto semplice: talebani, afghani e pakistani
il nemico ce l'hanno in casa, così come i fondamentalisti del sud-est
asiatico. Fonti accreditate suggeriscono invece la presenza di un
terrorismo regionale - dall'Arabia Saudita, Emirati Arabi, Yemen,
Siria, Libano, Egitto e Palestina - ma numericamente poco
consistente. Resta il fatto che non poteva esserci, per Al Qaeda, uno
spot migliore della guerra di conquista scatenata da Washington e dei
feroci bombardamenti costati così tante vittime civili.
Sabina Morandi
[Sono state eliminare la parti non di testo del messaggio]
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