Per chi fosse incuriosito/a,
vi allego uno scritto non breve (10 minuti), ma di qualche interesse, su
quelle ricche dimensioni che indichiamo come musica, conflitto, danza.
C'è anche dell'altro però.
ciao
Mimmo
PROCESSO DECISIONALE, METODO DEL CONSENSO E FACILITAZIONE
ROBERTO TECCHIO
Presento qui una serie di scritti brevi che raccolgono alcune mie riflessioni
sulla pratica del metodo del consenso. Li ho usati in forme diverse nei miei
ultimi lavori formativi sui processi decisionali consensuali. Il fine e' la
comprensione del metodo stesso, cosa che credo potrebbe favorirne la
diffusione. C'e' una domanda al fondo della mia ricerca: giacche' e'
impossibile non comunicare, non decidere, non gestire i conflitti, come posso
farlo in modo nonviolento? E c'e' una domanda fondamentale che rivolgo ad
ogni gruppo: conosce il metodo che usa per decidere?
*
Il metodo del consenso in pratica: una visione d'insieme
Il momento formale della decisione (per esempio il momento del voto o quello
della verifica del consenso) e' solo un momento all'interno di un ampio e
articolato processo. La qualita' di una decisione (cioe' se essa e' piu' o
meno partecipata, creativa, fattibile, nonviolenta, democratica, ecc.)
dipende dal metodo di lavoro usato (metodo per discutere, produrre idee,
confrontarsi, gestire le differenze e i conflitti, ecc.), che a sua volta
dipende fortemente dal metodo decisionale che si adotta (per esempio se si
vota si usera' un certo metodo di lavoro, se si vuole costruire il consenso
senza votare se ne usera' un altro - e le tecniche non vanno confuse col
metodo). Pertanto se vogliamo valutare la bonta' di un metodo decisionale
dobbiamo prendere in considerazione tutto il processo che esso prevede e
pretende di mettere in moto, dalla a alla zeta. Qualunque sia il metodo
usato, il processo in pratica si svolge sempre in tre distinte fasi
spazio-temporali, fasi che consentono di cogliere le differenze tra i vari
metodi:
I. fase preparatoria dell'incontro: cioe' tutto quello che avviene prima
dell'incontro, sia esso una riunione ordinaria o un'assemblea;
II. fase assembleare: cioe' tutto quello che avviene durante l'incontro;
III. fase esecutiva: cioe' tutto quello che avviene dopo l'incontro in
rapporto alle decisioni prese, ovvero l'attuazione delle decisioni.
Per quanto concerne i processi decisionali partecipativi (cioe' che
favoriscono la massima "partecipazione efficace" di tutti coloro che sono
toccati dalle conseguenze dirette delle decisioni) e orientati al consenso
(cioe' dove la decisione finale non e' il risultato di un voto, che spesso
vede una maggioranza "contro" una minoranza, bensi' il risultato di un
dialogo che porta tutti i partecipanti, sebbene in grado diverso, a
convergere verso una determinata decisione), in rapporto alle fasi suddette
si tende a curare/soddisfare i seguenti aspetti:
I. Fase preparatoria.
Tutti devono essere informati di tutto: l'informazione e' potere. Tutti devono
sapere chiaramente in anticipo quali sono:
- agenda: obiettivi generali e particolari dell'incontro, tempi;
- Metodo decisionale adottato e relativo metodo di lavoro che viene usato
nello specifico incontro (pur con lo stesso metodo decisionale, per esempio
il cosiddetto metodo del consenso, Il metodo di lavoro puo' variare
notevolmente da situazione a situazione);
- documenti e altri materiali necessari alla "partecipazione efficace".
II. Fase assembleare.
Teste, testi e contesto
- Curare l'ambiente/contesto ove avviene l'incontro (i contesti influenzano le
relazioni che a loro volta influenzano i contenuti delle decisioni), dunque
gli ambienti di lavoro, la disposizione delle sedie, l'uso di supporti
visivi, ecc.
- Ri-condividere (partecipare, spiegare) sul momento l'agenda, il metodo
decisionale e il metodo di lavoro (anche se erano gia' stati comunicati) per
contestualizzare e rafforzare il patto di lavoro valido in quella occasione.
- Per quanto concerne il metodo di lavoro, particolare attenzione va data alla
presentazione/spiegazione della "facilitazione" e di altri eventuali ruoli/
funzioni di servizio (per esempio presidenza di un'assemblea, coordinatore di
gruppi di lavoro, portavoce, segretari, ecc).
- Valutare il processo: tutti i partecipanti si esprimono a caldo sul metodo
di lavoro; piu' a freddo (o con piu' tempo) ne focalizzano i punti forti e
deboli, che sono la base per la crescita del gruppo.
III. Fase esecutiva. Tra il dire e il fare c'e' di mezzo il mare
Il gruppo puo' approntare strumenti per rilevare i dati che servono a
valutare, alla prova dei fatti, la qualita' delle decisioni prese
(l'attuazione efficace di una decisione dipende anche, e non poco, dal grado
di motivazione e comprensione di chi deve attuarla, fattori che a loro volta
dipendono anche, e non poco, dal modo in cui sono state prese le decisioni).
*
Una nota sulla "partecipazione efficace"
Cosa intendiamo con la parola partecipare? Anche chi ascolta e basta
partecipa. Anche chi parla per mezz'ora alla platea, senza che del suo
parlare resti minima traccia nella testa di chi ascolta e nei verbali finali,
partecipa. Certamente la partecipazione di cui oggi si parla non coincide col
voto, e coincide sempre piu' con l'idea capitiniana di omnicrazia.
Riferito al metodo del consenso, a mio avviso partecipare vuol dire:
a) poter sapere nei tempi e nei modi giusti cio' che conta sapere per poter
decidere (fase preparatoria);
b) poter concretamente contribuire o influire in qualche misura sulle
decisioni che verranno prese (fase assembleare e/o lavori preparatori della
fase preassembleare);
c) poter partecipare e/o verificare direttamente l'attuazione e la ricaduta
delle decisioni (fase esecutiva).
Questa partecipazione e' molto impegnativa, e per questo puo' essere veramente
efficace. Si comincia dal basso, cioe' senza dubbio dalla famiglia, e chissa'
dove si puo' arrivare...
*
Il metodo del consenso e la gestione del rapporto (conflitto) tra maggioranze
e minoranze durante le riunioni
A) Premessa
Questo scritto e' un approfondimento inerente la pratica del metodo del
consenso, pertanto si rivolge a chi conosce il metodo (almeno nella teoria),
altrimenti puo' risultare poco comprensibile (una serie di testi brevi che
presentano in sintesi il metodo del consenso si possono trovare su internet,
oppure mi possono essere richiesti). Per poter capire lo scritto e' inoltre
necessario, per chi legge, mettersi nei panni di chi facilita la riunione.
Infatti il metodo del consenso si fonda sulla facilitazione, cioe' sulla
capacita' del gruppo di comunicare in modo efficace (rispetto agli obiettivi)
e coerente (rispetto ai principi ispiratori del gruppo stesso), che spesso,
ma non sempre e non necessariamente, si avvale a tale scopo di figure
particolari (i facilitatori, professionisti o meno, interni al gruppo o
esterni ad esso). Insomma, col metodo del consenso puo' esserci assenza di
facilitatori, ma mai assenza di facilitazione. L'assenza di facilitatori
significa (e comporta) che ogni membro del gruppo sappia in qualche misura
facilitare ed eserciti, in modo esplicito e con regole condivise, tale
funzione durante la riunione.
B) Scenari molto probabili...
Nel prendere decisioni all'interno dei gruppi, soprattutto se i partecipanti
sono numerosi, e' naturale giungere durante la discussione alla formazione di
maggioranze e minoranze attorno a delle proposte. Tali proposte rappresentano
la nostra preziosa materia prima (in forma gia' un po' elaborata, ma ancora
grezza), da cui partire o proseguire nel processo di costruzione del
consenso. Se c'e' una maggioranza c'e' sicuramente pure una minoranza
(altrimenti vi sarebbe unanimita'), e prima o poi verra' il momento in cui il
confronto tra queste parti dovra' chiudersi e risolversi in una decisione.
Percio', quando le parti durante la discussione cominciano a definirsi
abbastanza chiaramente nelle rispettive posizioni e proposte, e' necessario
"sapere cosa fare" per gestire questa delicata e cruciale dinamica che e'
naturalmente conflittuale. Tale conoscenza dovrebbe essere condivisa (cioe'
conosciuta e ri-conosciuta) dal gruppo, e corrisponde a una parte importante
del metodo del consenso che ora andiamo ad analizzare. Immaginiamo di avere
sotto gli occhi di facilitatori (scritta per esempio su un cartellone) la
formulazione di una proposta che sta coagulando l'accordo di una buona parte
del gruppo. A questo punto va chiesto alla minoranza che ancora non e'
d'accordo (per comodita' di scrittura uso il concetto di minoranza che puo'
valere sia per una persona, sia per un insieme di persone piu' o meno
d'accordo nel contrastare la proposta della maggioranza), di assumersi la
responsabilita' di far cambiare opinione alla maggioranza che si e' formata.
Per esempio si potrebbe chiedere quali effetti dannosi concretamente la
minoranza prevede qualora venisse presa quella decisione, ovvero quali
bisogni resterebbero insoddisfatti. Prima di rispondere a questa domanda
pero', si potrebbe chiedere a chi e' in disaccordo di riassumere la sostanza
della proposta della maggioranza: questo serve a verificare la sua effettiva
comprensione della proposta della maggioranza e a rafforzare il processo in
termini di ascolto e riconoscimento reciproco e di fiducia (la tecnica e'
chiamata "rispecchiamento" ed e' indispensabile nei momenti di tensione,
spesso associata alla tecnica della "riformulazione" applicata da chi
facilita - vedi per esempio Christoph Besemer, Gestione dei conflitti e
mediazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999, 2003). Dopo che la minoranza
ha mostrato di aver ascoltato e capito (ed e' la maggioranza che dovra'
confermarlo), dira' le sue ragioni. Dopo che la o le minoranze hanno portato
le loro ragioni bisogna verificare cosa e' accaduto nella maggioranza. Per
esempio si puo' chiedere: "c'e' qualcuno che ora vede le cose diversamente da
prima, oppure restate convinti delle vostre ragioni?". Prima di rispondere
alla domanda si potrebbe applicare anche qui la tecnica del rispecchiamento
(e' indispensabile farlo se cio' e' stato prima chiesto alla minoranza).
L'intervento della minoranza potrebbe infatti avere diversi effetti sulla
maggioranza: per esempio ci possono essere dei cambiamenti di opinione nella
maggioranza; oppure in essa si registrano posizioni meno allineate e piu'
stratificate, e dunque la minoranza avra' aumentato un po' la sua forza (le
maggioranze non vanno viste come dei monoliti, ma piuttosto come masse fluide
in movimento che possono al loro interno avere posizioni molto variegate,
vicine e al contempo lontane da quelle delle minoranze). Gli eventuali
cambiamenti di opinione della maggioranza dovranno comunque tradursi in una
modifica della formulazione originaria della proposta, che mostri nel
concreto il cambiamento. La nuova proposta, ben leggibile sotto gli occhi di
tutti, e' a quel punto la materia prima per verificare e costruire il
consenso. In queste situazioni (che sono la norma) il gruppo (e soprattutto
il facilitatore, se c'e') deve capire come andare avanti. Potrebbe per
esempio essere necessario e possibile investire altro tempo alla ricerca di
una soluzione migliore e piu' condivisa, altrimenti il consenso che si
andrebbe a formare potrebbe essere troppo debole. In genere da qui si esce o
trovando una formulazione adeguata, magari sovraordinata (che riesce a tenere
insieme le diverse esigenze, o comunque in qualche modo a soddisfare le
diverse parti), oppure lasciando in sospeso la decisione (in questi casi
definendo il percorso che portera' ad affrontare di nuovo e meglio quel
problema). C'e' pero' anche la possibilita' che non siano avvenuti
cambiamenti nella maggioranza, e dunque che questa resti praticamente intatta
e convinta. In questo caso la parola deve tornare alla minoranza, andando a
verificare gli effetti su di essa degli interventi della maggioranza (che,
dopo aver mostrato di aver ascoltato e capito le ragioni della minoranza,
avra' evidentemente motivato il perche' della sua determinazione). Anche in
questo caso infatti potrebbero esservi cambiamenti nella minoranza, che ora
potrebbe essere piu' convinta delle ragioni della maggioranza, o piu'
rassicurata, oppure no e restare ancora salda sulle sue posizioni. Gli
effetti sono analoghi a quelli sopra descritti e bisogna appunto capire come
procedere. Nei casi in cui, dopo aver discusso un certo tempo (che non e'
illimitato e percio' deve essere prestabilito e comunque concordato
consensualmente), maggioranza e minoranza mantengono quasi invariate le loro
posizioni, in pratica la minoranza ha tre possibilita' di risposta (con
questo tipo di approccio al metodo del consenso, che risulta molto piu'
efficace rispetto a quello usato agli inizi nell'area nonviolenta, dove in
sostanza esisteva un potere di veto e non a caso il metodo del consenso e'
rimasto a lungo inapplicato o male applicato, e solo ora si sta diffondendo):
a) la minoranza conferma il suo disaccordo, ma accetta senza riserve la
proposta della maggioranza;
b) la minoranza conferma il suo disaccordo, dichiara comunque di accettare la
proposta della maggioranza, ma con delle riserve (cioe' dice a quali
condizioni l'accetta, per esempio dichiarando il non sostegno/non impegno,
oppure chiedendo una clausola/postilla, per esempio la decadenza della
decisione dopo un tot di tempo per poterci ritornare, ecc. - e' la posizione
che alcuni autori chiamano "stare da parte");
c) la minoranza conferma il suo disaccordo e non accetta la situazione del
momento, quindi non da' il consenso, e chiede di poter sospendere per
discutere ancora e trovare una migliore formulazione della decisione finale.
Nel caso 'a' il consenso e' stato costruito.
Nel caso 'b' la maggioranza deve dire se accetta le riserve, ovvero le
condizioni poste dalla minoranza: solo allora il consenso e' fattivamente
costruito. Se cio' non avvenisse, e' necessario proseguire nella gestione del
disaccordo per approdare comunque a uno dei tre casi citati.
Nel caso 'c' la maggioranza deve dire se accetta di sospendere la decisione
per poter proseguire nel confronto come richiesto dalla minoranza, oppure
deve motivare la sua determinazione a decidere in quella sede relativamente
alla proposta che si sta discutendo. In questa situazione una ulteriore
discussione - nei modi sopra descritti - puo' costruire il consenso portando
ai casi 'a' o 'b'; altrimenti vuol dire che ci si trova di fronte a una
incompatibilità fondamentale ed e' molto probabile andare verso una
separazione o scissione del gruppo (che teoricamente potrebbe essere anche
consensuale e quindi costruttiva).
C) Consigli
Durante questi passaggi il gruppo e/o chi facilita deve fare attenzione a
verificare se le posizioni delle maggioranze e delle minoranze sono
rappresentate da blocchi monolitici oppure stratificati (cio' puo' essere
fatto per esempio con la tecnica degli schieramenti, o con i cartoncini
colorati, o con altri metodi di sondaggio rapido). Ovviamente la dinamica non
e' cosi' nitida e regolare nel suo sviluppo. Tuttavia e' possibile cogliere
durante il processo di discussione i passaggi da una fase all'altra (e'
l'eventuale facilitatore che deve anzitutto coglierli), e soprattutto e'
possibile innescare quei passaggi quando durante la discussione ci si
avvicina a quelle soglie del processo. Infatti certi passaggi non e' detto
che avvengano sempre e comunque, anzi, spesso un gruppo che ha buone
potenzialita' s'invischia in una fase del processo e non riesce ad uscirne
costruttivamente, e allora si tratta piu' che altro di agevolare, di
catalizzare il processo (e catalizzare non vuol dire forzare). I membri di un
gruppo e specialmente un facilitatore devono esercitare/sviluppare la
sensibilita' al processo decisionale e la capacita' di agire in modo
adeguato.
*
Partecipanti facilitatori e facilitatori partecipanti
Questo scritto si fonda sulla mia esperienza di facilitatore ed e' una
riflessione sull'esperienza stessa al fine di diffondere i metodi decisionali
partecipativi e orientati al consenso, i quali si basano, appunto, sulla
capacita' di (auto)facilitazione delle riunioni.
A) Una premessa
Chi ha la funzione di facilitare un incontro dove si prendono decisioni (anche
molto semplici), deve avere sufficiente sensibilita' per alcuni aspetti della
dinamica dei gruppi. Cioe' deve saper cogliere e leggere cosa sta avvenendo
nel gruppo quasi in ogni momento dell'incontro, intervento dopo intervento, e
in particolari momenti deve sapere cosa sta avvenendo anche dentro le persone
(per esempio nei momenti di disagio e tensione). Poi, oltre a saper leggere
cosa succede, deve sapere cosa fare (e non fare) per "facilitare" il gruppo a
svolgere il suo imprevedibile percorso che ha come obiettivo (sempre, anche
se spesso il gruppo non ne e' consapevole) la presa di decisioni (laddove
anche il non decidere nulla rappresenta in sostanza una decisione del
gruppo). Detta cosi', la funzione di facilitare sembra roba da
professionisti. E infatti io credo che lo sia: a certi livelli, e se si
desiderano certi risultati col metodo del consenso, a mio avviso la
facilitazione e' necessario che sia affidata a mani esperte (perche' mai
un'arte cosi' complessa come il comunicare in gruppo dovrebbe essere frutto
d'improvvisazione, o di istintiva conoscenza, visto che peraltro la scuola
non l'insegna da nessuna parte? Naturalmente bisogna intendersi sul termine
facilitazione, e questo lo vedremo tra breve). Tuttavia e' un dato di fatto
che i gruppi che vogliono applicare metodi orientati al consenso possono
essere in grado di autogestirsi e di migliorare molto la qualita' dei loro
incontri senza ricorrere a facilitatori professionisti. Cio' puo' avvenire a
condizione che il gruppo nel suo insieme (cioe' la gran parte dei suoi
membri) sviluppi abbastanza quella sensibilita' sopra accennata. E se e' vero
che tale sensibilita' in alcune persone la si trova come dote naturale, tutti
possono accrescerla. La cosa non e' nemmeno cosi' difficile: per sviluppare
una sensibilita' sufficiente a stare in un gruppo in modo facilitante,
costruttivo per se' e per il gruppo (quella che io chiamo "partecipazione
facilitante"), ed eventualmente per svolgere in modo specifico nel gruppo una
funzione semplificata di facilitatore (quello che io chiamo "partecipante
facilitatore"), non e' affatto necessaria la formazione che deve seguire chi
desidera diventare professionista. Per mettere in moto un processo virtuoso
di auto-apprendimento individuale e di gruppo serve un po' di buona
conoscenza teorica e pratica, sostenuta da un po' di formazione-training,
tenendo presente che in proposito la parte fondamentale dell'apprendimento si
trova nei momenti di valutazione dell'esperienza diretta, cioe' quando al
termine di un incontro ci si lascia sufficiente tempo per rivedere cosa e'
successo. Insomma, letture e corsi di formazione sono praticamente
indispensabili per acquisire quel minimo di conoscenze per il "fai da te", ma
poi il vero apprendimento avviene prestando particolare attenzione a ogni
incontro del gruppo.
B) La facilitazione dei processi decisionali partecipativi e orientati al
consenso: definizione e precondizioni
La facilitazione e' di norma associata ai processi decisionali partecipativi
(cioe' volti a includere tutte le parti toccate da una decisione),
specialmente e obbligatoriamente se sono anche orientati al consenso (cioe'
quando non e' previsto in via ordinaria il metodo della votazione e le
decisioni si considerano approvate solo quando tutti acconsentono - quello
che qui chiamiamo metodo del consenso). In tal senso la facilitazione
consiste in un insieme di comportamenti, strumenti e tecniche che hanno lo
scopo di aiutare un gruppo a prendere delle decisioni, o anche semplicemente
a consultarsi, in modo efficace, cioe' costruttivo sul piano dei contenuti,
soddisfacente sul piano delle relazioni, coerente con i principi ispiratori
del gruppo. La facilitazione, per funzionare, non puo' mai essere imposta;
deve invece essere richiesta dal gruppo o come minimo esplicitamente
accettata da tutti i suoi membri. Pertanto la facilitazione e' un intervento
che deve essere sempre chiaramente presentato nelle sue regole e funzioni. La
facilitazione informale, attuata cioe' spontaneamente e implicitamente da
alcuni membri di un gruppo, va quindi evitata (perche' produce, soprattutto a
lungo andare, effetti negativi e controproducenti), o meglio, andrebbe resa
esplicita e quindi valorizzata. La facilitazione in genere e' attuata da una
precisa figura, il facilitatore. Puo' essere "interna" o "esterna": e'
"interna" quando il facilitatore e' un membro del gruppo; e' "esterna" quando
il facilitatore non fa parte del gruppo (ma gode di una certa fiducia del
gruppo). A volte, nei gruppi che hanno esperienza, la facilitazione puo'
essere attuata contemporaneamente da diversi membri interni al gruppo, o
anche da tutti i membri se il gruppo e' piccolo, secondo modalita'
concordate. La facilitazione deve tener conto di tre dimensioni: quella
contenutistica, quella procedurale e quella socioaffettiva. Le tre dimensioni
sono interagenti e inscindibili; tuttavia vi sono interventi piu' centrati
sull'una che sulle altre. Esemplificando:
- contenutistica: chi facilita interviene per verificare se le idee espresse
da un membro sono state comprese dal resto del gruppo; riformula o sintetizza
(su cartellone o su altro supporto visivo di gruppo), le proposte espresse;
- procedurale: chi facilita richiama il gruppo ai tempi e alle fasi
prestabiliti della discussione (per esempio le fasi di un Problem Solving);
propone strumenti per gestire le difficolta' che sorgono durante la
discussione (per esempio potrebbe proporre la suddivisione in piccoli gruppi
di lavoro); verifica che il lavoro preparatorio della riunione sia svolto con
criteri di trasparenza, partecipazione e completezza; durante lo svolgimento
della discussione esplicita formalmente i passaggi da una fase all'altra (per
esempio l'inizio e la fine di un brainstorm, o della discussione su un tema);
verifica il consenso su una proposta;
- socioaffettiva: chi facilita rileva e aiuta a gestire le tensioni fisiche ed
emozionali (conflitti); propone strumenti per ricostruire o rafforzare il
clima di fiducia all'interno del gruppo, l'attenzione, la cooperazione.
Cosa fa (e non fa) un facilitatore
In sede di riunione chi facilita si occupa in genere di questi aspetti:
- cura la presentazione dell'agenda (i punti da discutere e i relativi tempi);
- cura o verifica che tutti abbiano (avuto) le informazioni necessarie
inerenti gli obiettivi dell'incontro, il metodo di lavoro e quello
decisionale;
- propone e/o (ri)presenta il metodo decisionale e il relativo metodo di
lavoro specifico che verra' usato nella riunione; spiega in cosa coinsiste la
sua funzione di facilitatore e quali sono i suoi limiti;
- applica il metodo di lavoro, cioe' gestisce i tempi di discussione e le
varie fasi usando in proposito gli strumenti ritenuti piu' adatti; applica un
modello di Problem Solving e un modello di gestione dei disaccordi
(costruzione del consenso);
- non entra mai nel merito dei contenuti (le opinioni e le proposte espresse
dai partecipanti), ma solo sulla dinamica dell'ascolto e della comunicazione,
e su questioni inerenti il metodo di lavoro (ovvero il metodo decisionale)
che il gruppo ha adottato. In sostanza chi facilita e' focalizzato sul gruppo
e sui bisogni del gruppo: aiuta il gruppo a trovare le sue soluzioni ai suoi
problemi, senza portare o forzare verso le soluzioni che egli/ella riterrebbe
piu' valide (ecco perche' in certe situazioni un facilitatore interno al
gruppo corre grossi rischi, mentre, d'altra parte, un facilitatore esterno
deve godere di una certa fiducia da parte del gruppo). In alcuni casi (e in
alcuni approcci alla facilitazione) l'intervento del facilitatore puo'
estendersi anche al consiglio su possibili soluzioni creative. Qualora
volesse o dovesse intervenire nel merito dei contenuti (cio' accade
normalmente quando si usa la facilitazione interna) dovrebbe esplicitarlo e,
se necessario, farsi momentaneamente sostituire nella sua funzione da un
altro membro del gruppo.
Per iniziare ad applicare consapevolmente la facilitazione
Un gruppo che vuole lavorare efficacemente (decisioni chiare, condivise,
creative, che costruiscono fiducia, rispetto e affetto nel gruppo), puo'
passare da una improvvisata autogestione ad una autofacilitazione piu' o meno
strutturata:
1) individuando una serie di regole o linee guida coerenti con i valori e i
principi ispiratori del gruppo che devono essere veramente condivisi. Alcune
regole fondamentali si possono reperire in tutti i manuali di comunicazione
efficace (o ecologica, o nonviolenta - vedi per esempio la "Tavola dei
diritti" riportata nel testo "il metodo del consenso in teoria"), ma comunque
alla fine il "decalogo" deve essere espressione appassionata e convinta del
gruppo. A tali regole dovranno corrispondere coerenti strumenti e tecniche
per il lavoro di gruppo nelle diverse fasi, affinche' i mezzi possano
contenere e percio' realizzare da subito i fini;
2) condividendo l'attenzione (sensibilita') ad alcuni aspetti della dinamica
decisionale (il gruppo deve conoscere a fondo il metodo che usa);
3) trovando ordinariamente il tempo per valutare alla fine come e' andato
l'incontro (si puo' fare in cinque minuti o in un'ora, dipende da quanti si
e' e soprattutto da cosa si vuole ottenere con la valutazione).
Cosa vuol dire facilitare un processo decisionale
Facilitare un gruppo vuol dire saperlo accompagnare durante le varie fasi
dell'incontro in modo tale che ogni partecipante danzi al passo con gli altri
e che il gruppo nell'insieme rispetti il tempo e l'armonia della danza. E
diciamo subito che una visione dell'armonia che non includa il conflitto,
ovvero che vede un'opposizione tra conflitto e armonia, e' ingenua e
dannosissima (oltre a ignorare le leggi della musica, ma questo e' un altro
discorso). Una buona metafora per immaginare e capire questo processo, solo
parzialmente prevedibile e mai conoscibile a priori nei suoi risultati
finali, e' quella di un gruppo che danza, o che suona/canta. Io preferisco
l'immagine della danza perche' e' piu' dinamica e rende meglio l'idea dei
movimenti, anche molto complessi, che un gruppo compie - pur stando, spesso e
purtroppo, in gran parte seduto durante un incontro. Durante la danza e'
necessario che ognuno partecipi in armonia col gruppo, che vada a tempo, che
stia al passo. Anche se si sta dentro una cornice precisa (data dal tipo di
danza), ognuno puo' esprimere la sua creativita' e godere del risultato che
ottiene, risultato che e' sempre contemporaneamente personale e di gruppo.
Come in un gruppo che danza (che conosce la danza che vuol fare perche' l'ha
provata e studiata tante volte), cosi' un gruppo che s'incontra per prendere
delle decisioni (e in pratica cio' riguarda i gruppi di qualsiasi genere)
dovrebbe sapere quali sono i punti che deve discutere e come li affrontera',
sapere che la discussione procedera' secondo certi tempi passando
necessariamente attraverso certe fasi, fino al raggiungimento di una
decisione. Una danza non si sa mai come verra' eseguita, soprattutto se
contiene elementi di improvvisazione. Tuttavia, per quanto sia improvvisata,
la danza segue per forza certe "regole", che sono legate al tipo di
movimento, al ritmo della musica, allo spazio fisico, ecc. Un gruppo (di
qualsiasi tipo), soprattutto se stabile, si trova nella sua vita ad
affrontare in continuazione dei problemi e quindi a prendere decisioni. Il
modo in cui lo fa puo' essere creativo o meccanico, direttivo o
partecipativo, in ogni caso il processo passa attraverso determinate fasi che
si svolgono gradualmente e s'incontrano sempre. Tanto per dare un'idea,
semplificando, prima di prendere una decisione si analizza il problema; prima
di discutere/analizzare il problema si decide quale problema affrontare per
primo; prima di decidere quale punto/problema discutere bisogna decidere come
si prendono le decisioni. Il fatto che un gruppo non si renda conto di
passare attraverso queste fasi, puo' essere visto come un gruppo che danza in
modo disarmonico, dove ognuno segue il suo ritmo interno senza preoccuparsi
di accordarlo al ritmo del gruppo e della danza. La realizzazione
dell'armonia non dipende solo dalle buone intenzioni, necessita anche di
un'appropriata conoscenza ed esercizio. Questo vale anche per tutti i gruppi
che si riuniscono con scopi diversi da quello della danza.
La magia dell'incontro: diventare sensibili alla danza
Parto da alcune premesse:
I. ogni intervento/comunicazione ha, sempre, quantomeno degli effetti sulla
persona che lo fa, su ogni singola persona che lo riceve, sul gruppo nel suo
insieme;
II. e' impossibile non comunicare (cioe' non produrre quegli effetti): stare
in silenzio puo' avere effetti tanto potenti quanto il parlare;
III. la comunicazione non verbale gioca un ruolo di primo piano nel produrre
quegli effetti;
IV. sono le emozioni che determinano la comunicazione non verbale.
Durante una riunione avvengono tante cose, la gran parte di esse poco visibili
e in genere poco consapevoli. Tutte queste cose che avvengono possiamo
chiamarle "risultati o prodotti" dell'incontro. Uno sguardo produce un
effetto in chi lo riceve, e all'istante, chi ha guardato, riceve su di se'
l'effetto dell'aver visto come l'altro ha reagito al suo sguardo, e cosi'
via, in un gioco continuo di effetti che producono altri effetti. Alla fine
di un incontro ci sembra di raccogliere certi risultati, per esempio una
buona decisione, chiara, condivisa, creativa; ci sentiamo piu' vicini agli
altri o ad alcuni, proviamo piu' fiducia in noi stessi e reciprocamente.
Oppure tutto il contrario...
Alcuni di questi risultati, sempre presenti al termine di un incontro (di
qualsiasi genere esso sia), sono:
1. risultati sul piano dei contenuti (proposte o decisioni piu' o meno chiare,
fattibili, creative);
2. risultati sul piano del processo decisionale (decisioni piu' o meno
partecipate, condivise, capite);
3. risultati sul piano delle relazioni (aumento di stima, fiducia, rispetto
tra i membri del gruppo);
4. risultati sul piano della crescita personale (aumento della fiducia/stima
di se', maggiore conoscenza/competenza nell'affrontare i temi oggetto delle
riunioni del gruppo);
5. risultati sul piano sociale e politico (per la legge dell'interdipendenza
non c'e' crescita personale che non si ripercuota, seppur in modo complesso,
sulla dimensione sociale, politica, economica: rapporto micro/macro).
Per i nostri fini (un'autogestione nonviolenta delle riunioni orientata al
consenso) possono essere utilissimo oggetto di attenzione e riflessione i
primi tre punti. Questi "risultati", in positivo o in negativo, sembrano a
volte apparire magicamente durante l'incontro o alla fine; tuttavia noi (ogni
singolo partecipante) abbiamo il potere di favorire o meno le condizioni per
il manifestarsi di quella magia. Il fatto di non essere consapevoli di questo
potere non influisce sui suoi effetti, anzi, sembra che solo nella misura in
cui ne diveniamo consapevoli possiamo cominciare a ridurre gli effetti
negativi di quel potere usato in modo insensibile e ignorante.
[Ringraziamo di cuore Roberto Tecchio (per contatti: leporet(a)libero.it) per
averci messo a disposizione i seguenti assai utili materiali. Roberto Tecchio
e' in Italia uno dei principali formatori alla nonviolenza, dirige un
laboratorio permanente su questo tema presso il Cipax di Roma. Un'ampia
notizia biobibliografica su Roberto Tecchio e' nel n. 239 di questo foglio.
Un ampio testo di Roberto Tecchio particolarmente utile e la cui lettura
raccomandiamo a quanti vorranno approfondire i temi del seguente intervento
e' apparso in sei parti nei nn. 231-236 di questo foglio(cfr."La nonviolenza
in cammino"]